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 ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA                                                                                 

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 Ultimo aggiornamento: 23.12.2006

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IL PAZIENTE IN DIALISI

 

Il trattamento sostitutivo artificiale della funzione renale nell'uremia cronica ha avuto una diffusione così ampia da portare all'attenzione dell'opinione pubblica alcuni problemi dei pazienti in dialisi; attualmente la maggioranza dei medici di base ha in carico uno o più dializzati.

Questa rassegna si propone di esaminare l'evoluzione intervenuta in questi anni nella depurazione extrarenale, i principi sui quali si basa, le modalità con le quali è oggi eseguita ed i più importanti problemi a lungo termine ad essa correlati.

 

 

Evoluzione della sostituzione artificiale della funzione renale

 

I postulati dell'impiego della dialisi in medicina risalgono al 1913, quando il Dott. John Abel della Johns Hopkins Medical School di Baltimora descrisse un metodo "mediante il quale il sangue di un animale vivo può essere sottoposto a dialisi al di fuori del corpo, ed essere nuovamente restituito alla circolazione normale, senza esposizione all'aria, infezione da parte di microrganismi o a qualsiasi alterazione che possa essere di pregiudizio alla vita". Il filtro di questo sistema era definito rene artificiale.

Nel 1924, il tedesco Haas, partendo dall'ipotesi che la sindrome uremica è causata dalla ritenzione di prodotti normalmente escreti nell'urina e che è possibile allontanarli con un procedimento dialitico, e cioè utilizzando il passaggio di soluti che si verifica quando ai due lati di una membrana semipermeabile vi è un gradiente di concentrazione, eseguì i primi tentativi di emodialisi in pazienti uremici. Quantunque non vi fossero evidenti effetti clinici per la brevità delle applicazioni, questi esperimenti dimostrarono che il procedimento era utilizzabile in patologia umana.

Restavano aperti numerosi problemi: era necessario disporre di membrane resistenti e sufficientemente permeabili per consentire una depurazione significativa; per il circuito extracorporeo erano richiesti materiali atossici ed apirogeni; si dovevano mettere a punto sistemi sicuri di sterilizzazione e di controllo della coagulazione; erano indispensabili accessi vascolari soddisfacenti; era da definire la composizione ottimale delle soluzioni dializzanti.

Nel 1943 l'olandese Willem J. Kolff poté riprendere le sperimentazioni utilizzando membrane dializzanti di cellophane, nuove attrezzature messe a punto con ricercatori del suo gruppo e l'eparina come anticoagulante. Dopo due anni di insuccessi e qualche risultato parziale e dubbio, una donna di 67 anni con insufficienza renale acuta sopravvisse ad un coma uremico grazie alla dialisi: fu così finalmente confermata la validità del trattamento dialitico.

La preparazione e l'esecuzione della depurazione extrarenale erano molto indaginose: ad ogni applicazione il circuito extracorporeo, di elevato volume, doveva essere riempito con sangue di più donatori; per l'allacciamento del "rene artificiale" al paziente si incannulavano con un procedimento chirurgico invasivo due grossi vasi, che in genere non potevano più essere usati; la metodica era spesso mal tollerata. Per tali motivi, la depurazione extracorporea poteva essere ripetuta solo poche volte, ed il suo impiego era ristretto ai casi acuti. Pur con queste limitazioni, il successo nell'insufficienza renale acuta fu inequivocabile, con una drastica riduzione della mortalità.

A seguito dei primi risultati già così positivi, nuove energie furono dedicate allo studio dell'uremia, che si incominciava a considerare come potenzialmente correggibile anche a lungo termine con la dialisi, ed allo sviluppo di questa nuova terapia.

I principali ostacoli al suo impiego a tempo indeterminato, com'è richiesto dalle forme croniche, furono gradualmente superati e, nel 1960 a Seattle, nonostante un diffuso scetticismo, fu avviato il primo programma di trattamento dialitico regolare dell'uremia cronica.

Per l'allacciamento ai vasi del paziente era stato ideato uno shunt arterovenoso stabile in teflon che veniva disconnesso al momento dell'applicazione. La soluzione successiva, ora adottata nella maggioranza dei pazienti cronici, fu quella della fistola arterovenosa interna, realizzata con la connessione chirurgica di un'arteria ad una vena superficiale. Questo accesso, resistente e di lunga durata, permette di ottenere un notevole aumento della portata ematica in un vaso superficiale che si arterializza ed è facilmente accessibile all'infissione estemporanea di due aghi per il prelievo ed il ritorno del sangue.

Fu inoltre fondamentale la messa a punto di dializzatori (filtri) ad elevata superficie di scambio, di piccolo volume interno e con scarse resistenze. I primi erano ingombranti e venivano assemblati a mano; successivamente ne furono forniti altri tipi, già confezionati e sterili, con configurazioni geometriche emodinamicamente più vantaggiose ed efficienti. Si deve almeno in parte a questi progressi la riduzione della durata delle singole applicazioni da 10 a 6 e poi a 4 ore. La progettazione dei filtri di dialisi è ancora in evoluzione, ed attualmente, oltre alle classiche membrane cellulosiche, se ne impiegano numerose altre, di differenti materiali sintetici (poliacrilonitrile, polimetilmetacrilato, policarbonato, polisulfone), con caratteristiche di depurazione e biocompatibilità sempre migliori.

Il divario tra richieste di trattamento di uremici cronici e disponibilità di posti aveva inizialmente creato drammatici problemi etici e sociali. Per far fronte alle necessità, mentre tra difficoltà di ogni genere si cercava di aumentare il numero e la capienza dei centri ospedalieri, alcuni gruppi anglosassoni avviarono i primi programmi di dialisi domiciliare. Furono perciò progettate macchine automatiche (monitors), di ingombro ridotto, che consentivano di operare in condizioni di sicurezza senza personale specializzato, preparando automaticamente la soluzione dializzante. Ben presto queste nuove attrezzature si diffusero anche nelle sale dialisi permettendo di ridurre il numero degli infermieri e gli incidenti tecnici.

Il primo periodo della storia della dialisi può essere definito come quello della messa a punto di una metodica di dialisi da applicarsi in maniera standard a tutti i pazienti. Con l'accumularsi dell'esperienza e con la miglior conoscenza dei problemi delle sopravvivenze prolungate in dialisi, si sono poi gettate le basi per il secondo, attuale periodo, che potremmo definire "della dialisi adeguata per il singolo", con una massima attenzione non solo alla tolleranza immediata, ma anche alle complicazioni a lungo termine ed alla compatibilità biologica dei materiali di dialisi.

Mentre il trattamento dialitico dell'uremia cronica si diffondeva con successo crescente, una serie di studi, ancor oggi in pieno sviluppo, venne frattanto indirizzata alla messa a punto di metodiche alternative all'emodialisi.

Obiettivo iniziale era di migliorare la depurazione di sostanze con peso molecolare più elevato di quello dell'urea e della creatinina, delle quali si era ipotizzato un possibile ruolo patogenetico in alcune complicazioni dell'uremia.

A questo fine furono proposte alcune metodiche, come l'emofiltrazione e l'emodiafiltrazione, che rispondono bene a queste finalità, e sono ben tollerate anche da pazienti con instabilità cardiocircolatoria.

Negli anni ,70 erano stati anche ripresi gli studi sulla dialisi peritoneale, proposta sin dal 1923, ma poi quasi del tutto abbandonata per difficoltà tecniche ed una frequenza eccessiva di peritoniti. Questo trattamento sfrutta come superficie dializzante il peritoneo e come liquido di dialisi una soluzione che viene alternativamente introdotta e drenata dalla cavità peritoneale. La realizzazione di cateteri addominali impiantabili stabilmente e di soluzioni dializzanti molto purificate ne permise il rilancio con una nuova tecnica di permanenza protratta del liquido in addome (dialisi peritoneale ambulatoriale continua, o CAPD): tra i suoi vantaggi oltre a consentire una depurazione graduale e continua, vi è quello di svolgersi a domicilio, senza necessità di macchine. Dalla CAPD sono poi derivate altre metodiche, anch'esse di notevole interesse pratico.

 

 

Attuali problemi sociali ed organizzativi del trattamento sostitutivo dell'uremia cronica

 

Contemporaneamente all'evoluzione conoscitiva e tecnologica, il numero dei pazienti in dialisi è aumentato oltre ogni attesa: alla fine dell'88, in Italia, erano più di 24.000 e negli Stati Uniti oltre 100.000.

L'onere di questi trattamenti è notevole: secondo una recente analisi nella Divisione di nefrologia e dialisi dell'Ospedale G. Bosco di Torino, il costo medio annuo di un paziente in emodialisi con bicarbonato, eseguita in ospedale, è di 40.500.000 lire (il costo scende a 34.000.000 di lire se la dialisi è eseguita in un centro ad assistenza limitata ed a 26.900.000 lire se è a domicilio); quello di un paziente in emofiltrazione è mediamente di 67.900.000 lire; e quello medio di un paziente in dialisi peritoneale ambulatoriale continua di 21.900.000 lire.

  È al notevole peso economico che sono dovute le grandi differenze nel trattamento dell'uremia cronica nella popolazione mondiale: in molti Paesi in via di sviluppo non vi sono programmi di dialisi; in Europa i tassi di accettazione annui variano da poche unità nei Paesi con economia più debole, sino ad oltre 70-80 pazienti per milione di abitanti per l'Italia, l'Austria ed il Belgio.

Questi valori rispondono, per l'Europa Occidentale, alle esigenze di un'accettazione aperta a tutti i pazienti con indicazioni al trattamento. Pur con questo indirizzo, attualmente condiviso dalla quasi totalità delle nazioni industrializzate, non vi è un approccio unitario.

In alcune aree si trattano in ospedale tutti i pazienti: è la soluzione apparentemente più semplice; in realtà pone numerosi problemi per la difficoltà di reperire locali e personale in misura adeguata, e per il costo più elevato. In altre aree l'emodialisi ospedaliera è affiancata da programmi di dialisi peritoneale, che consentono il trattamento extraospedaliero diparte dei casi ed hanno un costo inferiore. Una terza possibilità è di offrire ai pazienti una scelta tra più programmi di trattamento, con l'obiettivo di attribuire a ciascun individuo quello più adatto alle sue necessità cliniche, attitudinali e sociali, e nello stesso tempo anche il più decentrato e conveniente dal punto di vista organizzativo ed economico. Secondo la nostra esperienza, questa è la soluzione preferibile e, nonostante sia molto complessa, un numero crescente di centri dialisi la sta adottando.

 

 

Principi fisici della depurazione extrarenale: dialisi e convezione

 

Per dialisi si intende il trasferimento di soluti attraverso una membrana semipermeabile, secondo un gradiente di concentrazione, da una soluzione a contenuto percentuale superiore ad un'altra a contenuto inferiore. L'entità del trasferimento è legata al gradiente delle singole sostanze, al loro peso molecolare ed alle caratteristiche di permeabilità della membrana stessa: le molecole a minor peso diffondono più facilmente di quelle a peso molecolare elevato, e si realizza quindi un'estrazione selettiva, con clearances che decrescono con l'aumentare del peso molecolare, sino ad azzerarsi in corrispondenza di valori caratteristici di ciascuna membrana (punto di cut off).

Con i filtri per emodialisi attualmente di più comune impiego si possono oggi ottenere, in corso di trattamento, clearances dell'urea di 125-175 ml/min, e della creatinina di 100-150 ml/min. La clearance della vitamina B12, considerata marker delle medie molecole è invece di soli 25-44 ml/min.

Se si introducono nella soluzione dializzante delle sostanze, quali calcio e basi, delle quali il paziente è carente, per lo stesso principio diffusivo è possibile una loro somministrazione in corso di dialisi.

I procedimenti emodialitici sono ancora attualmente i più diffusi, e da ciò è derivata l'abitudine, consacrata dall'uso ma impropria, di indicare come dialisi tutti i procedimenti di depurazione extrarenale.

In alternativa a quelli dialitici, da alcuni anni si impiegano dei procedimenti convettivi, come la cosiddetta emofiltrazione. Il principio sul quale si basa questa modalità di trasporto, che ricorda la filtrazione glomerulare, è che se si utilizzano membrane a porosità maggiore di quelle impiegate per l'emodialisi tradizionale e con permeabilità all'acqua molto accentuata, il trasferimento di soluti avviene non tanto per diffusione, quanto soprattutto secondariamente al passaggio di solvente (acqua) che li trascina con sé. L'entità del passaggio dell'acqua e quindi dei soluti dipende dalle caratteristiche della membrana e dal gradiente di pressione idraulica tra i due lati. A differenza di quanto avviene nell'emodialisi tradizionale, soluti a basso e ad elevato peso molecolare hanno valori di clearance simili, sino in prossimità del punto di cut off.

Per compensare le perdite di acqua plasmatica si effettua qui la restituzione di una soluzione polielettrolitica sterile contenente anche sostanze tampone e glucosio.

 

 

Generalità sull'impiego dell'emodialisi, dell'emofiltrazione e della dialisi peritoneale nell'uremia

 

Dialisi ed emofiltrazione consentono la depurazione di un'ampia serie di sostanze, alcune delle quali sono implicate nella patogenesi della sindrome uremica; il riequilibrio del bilancio idroelettrolitico ed acido-base è realizzato con la sottrazione di elementi in eccesso, come fosfati, acidi, sodio, potassio, e la somministrazione di altri carenti, come calcio e sostanze tampone.

Nell'emodialisi il sangue viene spinto da una pompa peristaltica con flusso continuo attraverso un filtro, all'interno del quale viene posto a contatto con il bagno di dialisi tramite la membrana dializzante. Il bagno di dialisi contiene elettroliti (sodio, potassio, magnesio, calcio, cloro) e tamponi (acetato o bicarbonato) e viene rinnovato in continuazione.

Come tampone può essere impiegato l'acetato (acetato dialisi) od il bicarbonato (bicarbonato dialisi); la dialisi con bicarbonato, meglio tollerata dal punto di vista cardiovascolare ma più costosa, sta gradualmente sostituendo quella con acetato, potente vasodilatatore dotato anche di proprietà cardiodepressive.

 

Gradienti pressori tra compartimento ematico e bagno di dialisi consentono di sottrarre i liquidi accumulati nel periodo interdialitico (in media 1-3 o più kg), riportando il paziente al suo peso secco o ideale.

Il corretto funzionamento del sistema extracorporeo è controllato da un monitor, dotato di numerosi dispositivi di intervento automatico, che prepara inoltre il bagno di dialisi. La composizione della soluzione di dialisi è attualmente adattata, entro certi limiti, alle necessità individuali, ad esempio con variazioni della concentrazione di sodio, calcio, potassio.

Nei procedimenti standard si utilizzano in genere flussi di sangue compresi tra 300 e 400 ml al minuto, flussi di soluzione dializzante di 500 ml al minuto e filtri con superficie variabile da 0,8 a 1,3 m2. Le applicazioni hanno una durata media di 4 ore e sono effettuate 3 volte alla settimana.

L'impiego di flussi ematici maggiori e di dializzatori a più ampia superficie permette di aumentare l'efficienza delle singole applicazioni e di ridurne la durata.

L'emodialisi con membrane cellulosiche è ancora oggi di largo impiego, soprattutto per il minor costo; su di essa esiste un'ampia esperienza con trattamenti anche di oltre vent'anni. Come già ricordato, sono disponibili anche altri tipi di filtri con membrane a più elevata porosità.

Nell'emofiltrazione il sangue è spinto entro un filtro ad alta permeabilità: acqua plasmatica e soluti attraversano la membrana per convezione e sono eliminati; non vi è bagno di dialisi. Nel procedimento attualmente più impiegato, a valle del filtro viene reinfusa nel circuito una soluzione polisalina per correggere l'emoconcentrazione secondaria alla sottrazione di liquidi; il bilancio idrico viene portato in pareggio reinfondendo una quantità di liquido inferiore a quella sottratta. L'andamento della convezione e della restituzione della soluzione polisalina è regolato da monitor specificamente progettati. Durante ciascuna seduta, in 4-5 ore, vengono scambiati 20-30 litri. I volumi infusi nel paziente sono quindi enormi (in genere oltre 4000 litri all'anno), e ciò ha posto inizialmente difficili problemi tecnici e farmacologici per ottenere soluzioni con sufficienti garanzie di purezza e sterilità.

L'emofiltrazione è stata sviluppata con l'intento di ottenere un'eliminazione migliore rispetto all'emodialisi anche di sostanze a peso molecolare elevato; i vantaggi conseguenti a questo tipo di depurazione non sono del tutto chiariti; il fatto che questa metodica sia ben sopportata da soggetti con scarsa tolleranza abituale all'emodialisi è attualmente uno dei motivi principali per cui la si impiega.

Diffusione e convezione sono abbinate in trattamenti particolari, come l'emodiafiltrazione e la biofiltrazione, che richiedono l'infusione di una minor quantità di liquido di sostituzione (5-10 litri per applicazione) ed una soluzione di dialisi. La tolleranza è in genere simile, o leggermente inferiore, a quella dell'emofiltrazione, con possibilità di un'efficienza maggiore e di una riduzione della durata delle singole sedute a meno di 3 ore (trattamenti ad alta efficienza, od ultrabrevi).

Una variante è la cosiddetta tecnica delle 2 camere, nella quale si usano 2 filtri in serie, il primo per emofiltrazione ed il secondo per emodialisi e che permette, entro certi limiti, il controllo indipendente dei processi di convezione e di diffusione.

Nella dialisi peritoneale la soluzione dializzante è introdotta in cavità peritoneale tramite un catetere flessibile a dimora e, una volta che la sua composizione si è equilibrata con quella del sangue, viene drenata e sostituita con altra, priva di scorie. In genere, per ogni scambio si introducono 2 litri di soluzione, la cui composizione, come quella del liquido per emodialisi, può essere adattata entro certi limiti alle necessità del paziente. Impiegando soluzioni ad elevato tenore di glucosio si possono sottrarre, per osmosi, le quantità di liquidi necessarie a pareggiare il bilancio idrico. A seconda delle metodiche, variano i tempi di permanenza e le modalità con cui sono eseguiti i cambi.

La dialisi peritoneale ambulatoriale continua (CAPD) prevede la permanenza pressoché continua nella cavità peritoneale della soluzione dializzante, che viene rinnovata con cambi manuali in media 4 volte al giorno, tutti i giorni. Tra un cambio e l'altro il paziente svolge le sue abituali attività.

La dialisi peritoneale ciclica continua (CCPD) si svolge tutte le notti, con 4 scambi effettuati da un'attrezzatura automatica; ogni ciclo ha una fase di permanenza di 2 o 3 ore; durante il giorno la cavità addominale resta ripiena di liquido.

La tecnica "automatizzata" prevede invece lo scambio notturno di 20-25 litri, e di giorno l'addome resta vuoto.   È indicata in pazienti con particolari problemi clinici, ad esempio ernie addominali.

La metodica "intermittente" viene eseguita in sedute tri- o quadrisettimanali di 8-10 ore, con scambi automatici di 30-40 litri, ed è indicata in pazienti nei quali i trattamenti extracorporei sono molto difficili o impossibili, ad esempio per una momentanea mancanza dell'accesso vascolare.

La dialisi peritoneale consente una buona eliminazione, oltreché di piccole molecole, anche di sostanze a peso molecolare elevato, ma mancano dati certi che la facciano preferire per questo all'emodialisi. Un elemento in suo favore, ed in particolare a favore della CAPD, è la continuità della depurazione e della correzione del bilancio elettrolitico ed acido base; la dialisi peritoneale è inoltre ben tollerata anche da soggetti anziani o in precarie condizioni cardiocircolatorie.

 

 

Aspetti metodologici della depurazione extrarenale nell'uremia cronica

 

In molti centri la dialisi ospedaliera è oggi affiancata da programmi extraospedalieri di grandi dimensioni.

Nell'Ospedale G. Bosco di Torino, ad esempio, su 210 pazienti in dialisi seguiti attualmente dalla nostra équipe, solo il 37% è trattato stabilmente nella sala dialisi ospedaliera.

L'emodialisi era inizialmente eseguita solo in ambiente ospedaliero per la sua indaginosità ed il rischio di incidenti anche potenzialmente mortali.

L'emodialisi domiciliare fu permessa dalla semplificazione e dalla maggior sicurezza di questa metodica, fattori che a loro volta incentivarono la progettazione di attrezzature automatiche. Questi programmi resero inoltre necessaria l'istruzione sistematica del paziente e di un partner stabile, non professionale, per consentire una condotta operativa autonoma, che prevede come unico legame diretto ed immediato nel corso delle applicazioni una disponibilità telefonica continua. Al centro dialisi sono riservati in questi casi solo l'impostazione del trattamento, della terapia di appoggio ed i controlli clinici e di laboratorio.

Questo approccio, inizialmente considerato con sospetto, portò a riconoscere che la partecipazione del paziente al proprio trattamento consente di sfruttare al meglio la dialisi, adattandola alle necessità del singolo in termini di orari, di durata delle singole sedute e di attenzione ai particolari, e permette di ottenere migliori risultati rispetto alla dialisi ospedaliera.

 

L'emodialisi domiciliare ha conosciuto, soprattutto negli anni '70, una notevole diffusione; più recentemente, il suo impiego è stato limitato da numerosi fattori. Il trapianto renale sottrae alla dialisi individui relativamente giovani ed in migliori condizioni cliniche, buoni candidati al trattamento domiciliare; lo stesso numero dei giovani tra i nuovi ingressi in dialisi sta diminuendo. Vi è una maggiore disponibilità di posti dialisi e quindi viene a cadere la motivazione più immediata a questa scelta; reperire un domicilio adatto è spesso difficile; molti centri dialisi continuano ad avere difficili problemi organizzativi, che frenano l'avvio di programmi di questo tipo. Infine la CAPD sta rappresentando per molti aspetti un'alternativa più facile. Secondo molti Autori e secondo la nostra stessa esperienza, per tutti coloro che ne hanno le possibilità, l'emodialisi domiciliare resta tuttavia ancor oggi il miglior tipo di trattamento.

Furono proprio i risultati positivi ottenuti con la dialisi domiciliare a suggerire all'équipe nefrologica torinese di avviare i cosiddetti programmi di dialisi ad assistenza limitata , per soggetti clinicamente ed attitudinalmente idonei alla conduzione autonoma dei trattamenti, ma privi di partner o di domicilio adeguato. In questo caso la dialisi è eseguita con diretta partecipazione del paziente, senza la presenza del medico, con la collaborazione di infermieri, preferibilmente in locali extraospedalieri. I suoi risultati sono molto favorevoli, e sottolineano ulteriormente l'importanza di coinvolgere il paziente al proprio trattamento.

L'emofiltrazione, l'emodiafiltrazione e le tecniche analoghe sono di conduzione più complessa di quella dell'emodialisi, e sono soprattutto impiegate in soggetti con problemi clinici di rilievo. Al momento sono quindi prevalentemente utilizzate in ospedale, ma è possibile un loro impiego anche in sede extraospedaliera.

La CAPD e le sue varianti sono trattamenti domiciliari condotti autonomamente dall'interessato, in genere senza l'assistenza di un familiare. Come per l'emodialisi domiciliare, si richiede un periodo di addestramento in ambiente ospedaliero, la cui durata varia a seconda delle capacità manuali ed intellettive del paziente. L'effettuazione del trattamento è subordinata alla presenza di condizioni igieniche ed ambientali idonee. Per la sua semplicità, tra queste tecniche, è soprattutto la CAPD ad avere la massima diffusione. Fondamentali sono stati non soltanto gli ottimi risultati in termini di sopravvivenza, riabilitazione e tolleranza, ma anche una netta riduzione delle complicazioni peritonitiche: alcuni anni or sono si registrava in media un episodio ogni 6-12 mesi di trattamento; attualmente si è scesi ad uno ogni 36 o più mesi. Questo progresso è in gran parte dovuto all'adozione di un particolare raccordo dell'apparato di dialisi, che viene sterilizzato con Amuchina(R), e che limita gli inquinamenti al momento dei cambi della soluzione.

A1 dicembre 1987 erano trattati con questa metodica il 44% dei pazienti nel Regno Unito, ed il 15% in USA. In Italia la percentuale è ancora limitata (7% alla fine dell'87), ma con ampie variazioni da centro a centro. Nel nostro ad esempio, al giugno 1989, era in dialisi peritoneale il 32% dei pazienti. A differenza delle altre tecniche, la dialisi peritoneale intermittente viene invece generalmente effettuata in ospedale.

 

 

Indicazioni ai vari tipi di trattamento sostitutivo artificiale dell'uremia cronica

 

Negli anni '60 venivano accettati al trattamento emodialitico dell'uremia cronica soltanto soggetti giovani, senza condizioni patologiche aggiuntive a quelle causate dall'uremia. Il miglioramento degli schemi di terapia, la disponibilità di nuove metodiche più adattabili alle necessità dei singoli e meglio tollerate, gli ottimi risultati ottenuti, hanno permesso di estendere progressivamente le indicazioni della depurazione extrarenale anche a pazienti anziani o con lesioni poliorganiche, malattie dismetaboliche, sistemiche e, in certi casi, neoplastiche.

Attualmente non poniamo controindicazioni assolute alla depurazione extrarenale. In pratica situazioni cliniche che non permettano l'impiego dell'emodialisi sono eccezionali e sono quasi esclusivamente rappresentate dall'assenza di accessi vascolari, o da cardiopatie gravissime. Esistono invece situazioni che ne rendono incerti i risultati o problematico l'impiego: è il caso, ad esempio, di soggetti con demenza senile, nei quali può essere impossibile ottenere un minimo di collaborazione, o con una neoplasia in fase invasiva ed una sintomatologia dolorosa incontrollabile, o con lesioni cerebrali irreversibili e compromissione dello stato di coscienza.

In relazione a questa politica, negli ultimi due anni, tra i nuovi ingressi in dialisi in Piemonte, un paziente su cinque aveva 70 o più anni, ed il gruppo dei soggetti affetti da diabete è divenuto il terzo per consistenza numerica. La sopravvivenza di questo tipo di pazienti è ovviamente minore di quella dei giovani senza condizioni patologiche aggiuntive, che possono superare i vent'anni di trattamento, ma la qualità di vita che viene permessa è d'abitudine discreta, e giustifica interamente questo indirizzo.

Per il trattamento di una popolazione con caratteristiche ed esigenze così eterogenee, disporre della sola emodialisi è eccessivamente limitativo, ed è quindi fondamentale potersi avvalere anche di almeno uno dei diversi procedimenti alternativi attualmente disponibili (emofiltrazione, emodiafiltrazione, dialisi peritoneale), o possibilmente di tutti. Analoghe considerazioni valgono per la localizzazione dei trattamenti, ospedaliera od extraospedaliera (domiciliare e ad assistenza limitata).

Per la loro abituale tollerabilità, le metodiche convettive (emofiltrazione, emodiafiltrazione) e la dialisi peritoneale sono particolarmente adatte ai soggetti anziani, vasculopatici o diabetici. Tutte queste tecniche sono perfettamente utilizzabili anche in soggetti giovani ed in buone condizioni generali, nei quali è peraltro l'emodialisi, specie quella ad alta efficienza e con applicazione brevi, a trovare abitualmente la più ampia utilizzazione.

Esistono invece controindicazioni alla CAPD: ernie non correggibili chirurgicamente, diverticoliti, estesi fenomeni aderenziali peritoneali, grandi obesità o reni policistici voluminosi possono renderne difficoltosa l'esecuzione.

Ulteriori problemi possono emergere a trattamento avviato: una scarsa tolleranza all'emodialisi può richiedere il passaggio alla dialisi peritoneale o all'emofiltrazione. Nel caso della CAPD, più episodi di peritonite a breve distanza, la perdita della capacità depurativa o di mantenere il gradiente osmotico con il liquido peritoneale (questa condizione è definita di "peritoneo aperto") e quindi di eliminare correttamente liquidi, richiedono il passaggio ad un'altra metodica. Per l'emofiltrazione può essere invece l'impossibilità di ottenere una fistola arterovenosa ad alto flusso; più in generale, l'abbandono della depurazione extracorporea può essere imposto dall'esaurimento degli accessi vascolari.

 

Per quanto concerne la scelta della localizzazione del trattamento, requisiti indispensabili per trattare a domicilio un paziente sono l'assenza di condizioni cliniche che necessitino della presenza del medico durante la dialisi, un'idoneità attitudinale a compiere correttamente le manualità richieste, il desiderio di partecipare attivamente al proprio trattamento, la disponibilità di una abitazione adatta e di un partner in grado di collaborare. Pazienti clinicamente ed attitudinalmente idonei ma privi di partner o di domicilio adeguato possono essere destinati a programmi di dialisi ad assistenza limitata, in cui il personale paramedico ha funzioni di appoggio ed assistenza.

Nel nostro centro, in linea generale, riteniamo attualmente preferenziale per i soggetti giovani, in grado di collaborare attivamente, il trattamento emodialitico domiciliare o, come seconda scelta, la CAPD.

La CAPD viene anche proposta sistematicamente a tutti i soggetti senza indicazioni alla dialisi domiciliare e senza controindicazioni specifiche. Alternative possono essere le tecniche peritoneali intermittenti.

Qualora queste metodiche non siano possibili, o se il paziente le rifiuta, si prende in considerazione un trattamento ad assistenza limitata. Solo quando anche questo programma non può essere utilizzato, si avvia il paziente al trattamento ospedaliero, che è impiegato come prima scelta solo in soggetti in condizioni cliniche compromesse o che richiedano la presenza continua del medico durante le applicazioni.

In genere la prima scelta è per una bicarbonato-dialisi, mentre le tecniche convettive sono impiegate d'abitudine in caso di cattiva tolleranza all'emodialisi. La dialisi peritoneale intermittente ospedaliera ha indicazioni in soggetti molto anziani o in condizioni cliniche precarie.

 

 

Indicazioni all'inizio della depurazione extrarenale

 

Questo momento viene scelto sulla base di dati ematochimici e di elementi clinici. Costituiscono generalmente un'indicazione precisa ad iniziare il trattamento una creatininemia superiore a 9-11 mg/dl e/o valori azotemici superiori a 250-300 mg/dl se il paziente sta seguendo una dieta appropriata e non vi sono condizioni correggibili di ipercatabolismo. A questi livelli di compromissione renale sono spesso associate un'acidosi anche grave, un'iperpotassiemia, un'ipocalcemia ed un'iperfosforemia. Livelli ritentivi di questo genere si raggiungono d'abitudine con valori di clearance della creatinina endogena di 5-7 ml/min.

In soggetti anziani, o con masse muscolari molto ridotte ed una dieta fortemente ipoproteica, i livelli ematochimici di allarme sono frequentemente inferiori: ignorare questa eventualità può esporre il paziente ai rischi di un'uremia grave.

In corrispondenza di valori ritentivi che indichino il trattamento sostitutivo, esiste in genere un conclamato quadro clinico di sindrome uremica, che a sua volta conferma le indicazioni. Una pericardite, soffusioni emorragiche cutanee, una neuropatia periferica, segni di compromissione cerebrale, manifestazioni gastrointestinali importanti, specie se di gastro-duodenite ulcerosa, quando non riconoscano un'altra causa, rendono necessari trattamenti immediati.

Non è raro che, pur con livelli creatininemici ancora contenuti (ad es. 7-8 mg/dl), siano i segni clinici di uremia a suggerire l'inizio della dialisi. Anche in mancanza di altri sintomi di rilievo, l'inizio del trattamento può talora essere richiesto da un quadro di ritenzione idrosalina intrattabile o da un'ipertensione particolarmente grave, ribelle alla politerapia. Situazioni di questo tipo sono più frequenti in soggetti con nefropatia diabetica.

Queste sono peraltro situazioni limite; l'orientamento comune è cercare di prevenire la comparsa di manifestazioni uremiche invalidanti. Per questa finalità, è importante saper cogliere il momento in cui il paziente comincia ad avere serie difficoltà a proseguire la sua vita abituale a causa di un'uremia ingravescente, ma non ancora clinicamente conclamata. In queste condizioni il trattamento può essere ambulatoriale e per qualche tempo mono o bisettimale per quanto riguarda la dialisi extracorporea, o con un numero ridotto di scambi per la CAPD, e permette in genere un rapido miglioramento delle condizioni cliniche ed un'alimentazione piú libera.

 

 

ACCESSI VASCOLARI

 

In ogni tipo di depurazione extrarenale il collegamento al paziente è cruciale per il successo del trattamento, e nello stesso tempo può essere fonte di temibili complicazioni. Nell'adulto, emodialisi ed emofiltrazione richiedono un flusso ematico di almeno 300 ml/min; valori maggiori sono necessari in caso di metodiche ad alta efficienza. Fistole arterovenose a portata molto elevata hanno effetti negativi a livello cardiaco, e pertanto l'accesso vascolare deve essere attentamente calibrato.

In rapporto alle caratteristiche strutturali ed alla presumibile durata di impiego, distinguiamo accessi vascolari temporanei e definitivi.

Gli accessi vascolari temporanei trovano indicazione quando si richieda un trattamento emodialitico immediato, come nell'insufficienza renale acuta, nell'uremia terminale quando non vi sia ancora un accesso definitivo, o in caso di improvviso arresto di un accesso vascolare preesistente. Si possono utilizzare:

- lo shunt esterno che prevede l'introduzione chirurgica di cannule rigide tronco-coniche in un'arteria ed in una vena, connesse con segmenti flessibili in silastic ad emergenza cutanea; tra un'applicazione e l'altra i due segmenti sono congiunti da un ponte di teflon. Lo shunt arterovenoso esterno, al quale si devono i primi successi del trattamento dialitico dell'uremia cronica, ha attualmente un impiego limitato praticamente solo a casi acuti, per un'alta frequenza di complicanze trombotiche ed infettive;

- l'incannulamento per puntura di grossi vasi, ora largamente utilizzato. Sono attualmente disponibili cannule che possono essere lasciate in situ anche per alcune settimane; l'introduzione viene fatta secondo la tecnica di Seldinger, con una guida metallica introdotta nel lume di un ago posizionato nel vaso. Di solito si preferisce la vena femorale (all'inguine) o, come seconda scelta, la succlavia o la giugulare esterna. Nel caso della femorale, il catetere raggiunge la cava inferiore poco dopo la congiunzione delle due iliache comuni; in quello della succlavia si posiziona l'estremo prossimale nella cava superiore prima del suo ingresso in atrio destro.

L'introduzione per via femorale è più agevole ed è scevra da rischi di rilievo; garantisce un buon flusso ematico, consente un facile riposizionamento sulla guida del catetere precedente, ma ostacola la mobilizzazione del paziente.

L'impiego della succlavia presenta numerosi rischi, quali emotorace, pneumotorace ed emopericardio, e richiede controlli radiologici per accertare il posizionamento del catetere; è peraltro in una sede igienicamente più idonea, e consente la mobilizzazione del paziente.

Se è stato possibile utilizzare un catetere di maggior diametro, a doppio lume, la reinfusione è effettuata nello stesso vaso; se la cannula è a lume singolo, il rientro può essere effettuato in una vena periferica; qualora tale manovra non sia agevole, si usa un sistema automatico a va e vieni di flusso, detto dell'"ago singolo".

 

Un'accidentale disconnessione, nell'intervallo dialitico, di shunt e cannule vascolari può causare emorragie anche mortali; i cateteri posizionati in vasi a pressione negativa comportano il rischio di un'embolia gassosa.

La dizione di accessi vascolari definitivi pone l'accento su uno dei loro principali requisiti, cioè la lunga durata che, per una fistola arterovenosa distale in un soggetto giovane, non diabetico, può essere anche di oltre 10 anni.

La fistola artero-venosa, che è attualmente l'accesso più diffuso, consiste in un collegamento diretto tra un'arteria ed una vena, con anastomosi latero-laterale, termino-laterale o termino-terminale. Quella termino-laterale può essere calibrata con maggior efficacia e in genere evita turbe importanti del circolo venoso distrettuale e fenomeni ischemici. Lo sviluppo delle vene che ricevono il flusso arterioso è in relazione al calibro dell'arteria utilizzata, al diametro dell'anastomosi, alle condizioni dei vasi venosi ed alla pressione sistemica. La sede è scelta in relazione alla facilità operatoria ed alla possibilità che si sviluppi un agevole circolo superficiale; è preferenziale quella all'arto superiore, in sede distale, tra arteria radiale e vena cefalica; si cerca di posizionarla a destra nei mancini ed a sinistra nei destrimani.

Nel caso in cui il patrimonio vascolare sia scarso, o si sia verificata l'ostruzione di un accesso vascolare preesistente, la fistola può essere allestita in altra sede: molto utilizzata è quella prossimale, tra arteria omerale o radiale e vene della regione cubitale. In questi casi è spesso necessaria la superficializzazione delle due vene del circolo superficiale del braccio, in quanto il loro decorso, soprattutto quello della basilica, è profondo.

Quando la situazione anatomica non consenta l'anastomosi diretta tra arteria e vena, è necessaria un'interposizione protesica, in genere di materiale sintetico come il goretex, resistente alle punture iterative.

Sia dopo un collegamento arterovenoso diretto, sia dopo inserimento di una protesi, è preferibile attendere 2-3 settimane prima di utilizzare l'accesso, soprattutto per evitare ematomi e trombosi, e ciò consiglia di eseguire questo intervento prima che le condizioni cliniche lo richiedano con urgenza.

In talune sedi anatomiche, come per i vasi femorali al terzo superiore della coscia, possono esser poste protesi tubulari interne, oppure shunt esterni tipo Thomas o Allen Brown; il vantaggio di questi ultimi risiede nel fatto che viene evitata la puntura iterativa di un vaso del paziente e l'utilizzo dell'accesso è pressoché immediato; le complicanze in cui si incorre sono le classiche degli shunt arterovenosi esterni.

La corretta "manutenzione" degli accessi vascolari da parte dei sanitari e del paziente, con una buona igiene, un'attenta scelta della sede di infissione degli aghi (da evitarsi è la ripetuta infissione nello stesso punto) ed un'accurata emostasi a fine dialisi, è essenziale per una loro lunga durata, senza comparsa di complicanze trombotiche, aneurismatiche od infettive. Altri problemi riguardano eventuali alterazioni di circolo, locali o generali, dovute ad un'alta portata.

 

 

ACCESSI PERITONEALI

 

Per molti anni l'impiego della dialisi peritoneale fu limitato ai casi di insufficienza renale acuta; la metodica richiedeva la perforazione della parete addominale ad ogni seduta, in quanto non si disponeva di accessi permanenti. Fu Maxwell nel 1959 a dare impulso a questa metodica ideando un nuovo tipo di catetere in nylon, per l'uso estemporaneo, che però poteva essere lasciato in situ per più sedute.

Risale al 1964 il primo catetere a permanenza propriamente detto, in silastic, ideato da Palmer e Quinton. Il catetere fu modificato nel 1968 da Tenckhoff e Schechter; da allora questo tipo di catetere, flessibile, morbido, non traumatico ed idoneo ai trattamenti cronici ha avuto una grandissima diffusione.Il catetere viene in genere inserito per via laparotomica sottombelicale mediana, o pararettale nei reinterventi, con emergenza laterale, attraverso un tunnel sottocutaneo.

L'accesso al peritoneo determina una comunicazione tra ambiente interno ed esterno, e costituisce dunque una zona a rischio per le infezioni peritoneali; i vari tipi di catetere proposti in epoca successiva a Tenckhoff hanno limitato solo in parte le complicanze infettive dell'ostio e del tragitto sottocutaneo, le dislocazioni e gli intrappolamenti da parte dell'omento, e resta tuttora aperto il problema di creare un accesso pratico e del tutto sicuro.

La tecnica di posizionamento riveste un ruolo fondamentale nel garantire un buon funzionamento del catetere; recentemente, in alternativa agli approcci chirurgici o semichirurgici, è stato proposto l'uso di un peritoneoscopio, che consente di visualizzare direttamente la cavità peritoneale e l'omento, di individuare eventuali aderenze e di posizionare il catetere in una zona libera da anse intestinali.

 

 

L'uremia ed il suo controllo con la depurazione extrarenale. Problemi clinici dei pazienti in dialisi

 

Si definisce come uremia una sindrome che traduce sul piano clinico la compromissione anatomofunzionale di numerosi organi ed apparati conseguente alla grave riduzione della funzione renale.

La sua patogenesi è solo parzialmente nota, cosicché questa condizione si presta ancora oggi più ad essere descritta che interpretata.   È in ogni caso giustificato ritenere che la patogenesi sia multifattoriale, e probabilmente dovuta contemporaneamente alla ritenzione di sostanze di vario tipo che svolgono un ruolo patogeno con effetti sinergici, ad alterazioni idroelettrolitiche e dell'equilibrio acido base, ad un'increzione inappropriata di alcuni ormoni e, forse, alla ritenzione di alcuni di essi o di loro prodotti terminali.

 

1) Ruolo patogenetico della ritenzione di scorie metaboliche, degli squilibri idroelettrolitici e del bilancio acido-base. L'ipotesi più accettata in passato era che l'uremia conseguisse fondamentalmente alla ritenzione di una o più "tossine" definibili con precisione. Tuttavia, tra le sostanze più comunemente considerate nella pratica clinica, l'urea, cui si deve il nome della sindrome, è stata riconosciuta potenzialmente tossica soltanto a concentrazioni molto elevate, oltre 300 mg/dl, ed in ogni caso all'iperazotemia sono attribuibili con sicurezza solo alterazioni molto settoriali, cosicché questo catabolita ha attualmente soltanto un significato generico di marker di ritenzione. Analoghe considerazioni valgono per la creatinina.

  È anche negato il ruolo dei metaboliti degli acidi nucleinici come l'acido urico, e di alcuni dipeptidi, le cui concentrazioni ematiche sono in genere aumentate nel soggetto uremico.

Notevole interesse aveva suscitato l'identificazione nel plasma uremico di elevati livelli di sostanze del gruppo delle guanidine e delle poliamine (spermina, spermidina e putrescina), ma il loro ruolo patogenetico è ora messo in dubbio.

Più recentemente, nel tentativo di rivalutare l'importanza dei fenomeni di ritenzione, concettualmente attraenti in quanto i rapporti tra miglioramento clinico e depurazione extrarenale sono innegabili, si è tentato di attribuire alcune manifestazioni dell'uremia, come l'anemia, la neuropatia ed i deficit immunologici, alla ritenzione di sostanze a peso molecolare più elevato di quello dell'urea, della creatinina, ed in generale dei prodotti tradizionalmente studiati. Queste sostanze, il cui peso molecolare presunto è stato indicato tra 300 e 1500-2000 o anche 3000 dalton, sono state definite complessivamente come "medie molecole". Si tratta di una teoria interessante ma controversa, in quanto la stessa identificazione di questi fattori non è stabilita con sicurezza.

 

Concentrazioni più elevate, rispetto ai soggetti di controllo, di prodotti con peso molecolare di quest'ordine di grandezza sono state effettivamente dimostrate nel siero uremico, ma non è stato possibile stabilire correlazioni precise tra la loro ritenzione e segni e sintomi specifici della sindrome uremica. Valutazioni teoriche e dati di laboratorio hanno permesso di rilevare che le "medie molecole" sono scarsamente rimosse dalle membrane di cuprophane, e che sono invece depurate con maggiore efficienza dall'emofiltrazione, dalla dialisi peritoneale e dalle nuove membrane sintetiche ad alta permeabilità. Un comportamento di questo tipo si presterebbe bene a spiegare l'incompleta correzione della sindrome uremica da parte della dialisi tradizionale, e la possibile progressione durante questo trattamento di alcune complicazioni, come la neuropatia periferica. Ma, come già è stato ricordato, non è stato possibile dimostrare con chiarezza che le metodiche teoricamente capaci di rimuovere più efficacemente le "medie molecole" permettano per questo risultati migliori.

Un'ipotesi alternativa è quella che sia la ritenzione contemporanea di più sostanze a vario peso molecolare ad avere effetti patogeni, con manifestazioni complessive differenti da quelle provocate dai singoli prodotti: ciò potrebbe rendere ragione della mancanza di correlazioni lineari tra livelli ematici delle tossine indiziate e sintomi specifici ma questa eventualità è stata poco studiata per le ovvie difficoltà metodologiche.

Non sussistono invece dubbi sugli effetti dell'acidosi e dei disordini idroelettrolitici, che sono talora responsabili di segni e sintomi specifici; anche in questo caso, nessun singolo elemento è in grado, di per sé, di riprodurre per intero la sindrome uremica.

 

2) Notevole attenzione merita il ruolo di fenomeni che fisiologicamente operano come compenso ma che, a seguito di stimolazioni abnormi causate dall'insufficienza renale stessa, perdono le caratteristiche di elementi omeostatici e causano complesse alterazioni anatomofunzionali.

Tra queste ha particolare importanza l'iperparatiroidismo secondario: nelle fasi iniziali dell'insufficienza renale l'aumento della secrezione di paratormone è in grado di ripristinare i normali livelli sierici del calcio e del fosforo; successivamente, l'iperfunzione paratiroidea può accentuarsi sino a provocare gravi alterazioni ossee e calcificazioni metastatiche. Oltre che a livello osseo, il paratormone svolge un'influenza anche su numerose funzioni cellulari a vari livelli (cuore, sistema nervoso, eritrociti). Per questo motivo è talora citato come esempio di tossina uremica.

Oggetto di attenzione è anche il possibile ruolo nell'uremia dei fattori natriuretici atriale ed ipotalamico, la cui produzione è aumentata secondariamente all'espansione dei volumi extracellulari. Al primo, che è un potente vasodilatatore, sono forse ascrivibili fenomeni ipotensivi acuti e cronici in corso di dialisi. Il secondo deprime l'attività della pompa Na, K-ATPasi uabaino-sensibile, che è considerato un importante meccanismo di trasporto di membrana che garantisce la costanza della composizione intracellulare. Questa inibizione potrebbe render conto almeno di una delle modalità con le quali la ritenzione di sodio è causa di ipertensione arteriosa: alla riduzione di attività di questa pompa sembra in effetti conseguire anche un aumento del contenuto di calcio delle cellule muscolari lisce, con la conseguenza di un incremento delle resistenze arteriose periferiche, che a sua volta è alla base dell'ipertensione arteriosa. All'inibizione della pompa Na, K-ATPasi è stata anche attribuita l'ipereccitabilità muscolare e la ridotta sopravvivenza eritrocitaria.

 

3) Di grande rilievo patogenetico è la compromissione della funzione endocrina del rene. Già è stato ricordato, e ancora sarà discusso, il ruolo della ridotta idrossilazione da parte del rene del 25 (OH)-colecalciferolo (calcifediolo), prodotto dal fegato, in 1,25 (OH)2-colecalciferolo (o calcitriolo).

Il deficit di produzione di eritropoietina e l'iperproduzione di renina saranno presi in considerazione a proposito di sintomi specificatamente correlati.   È ancora incerto il ruolo della mancata produzione a livello renale di sostanze ad azione vasodilatatrice, quali alcune prostaglandine.

A questa serie di eventi patogeni si  possono inoltre sommare fenomeni iatrogeni, acuti e cronici, indotti dalla dialisi o da farmaci, che comportano quadri sintomatologici talora non facilmente distinguibili da quelli uremici. L'intossicazione da alluminio e, almeno in parte, la patologia da accumulo della beta2-microglobulina, che saranno discusse in seguito, sono gli esempi più evidenti di questa eventualità.

Non deve pertanto stupire che, in relazione a questa situazione così complessa, il trattamento dialitico non comporti la totale correzione degli squilibri dovuti all'uremia e che, in relazione ad un'eventuale insufficienza, assoluta o relativa, del trattamento sostitutivo, possano facilmente ricomparire manifestazioni uremiche anche gravi.

 

 

ALTERAZIONI DEL SISTEMA EMATOPOIETICO

 

Anemia

 

L'anemia accompagna quasi invariabilmente l'insufficienza renale cronica e viene considerata come parzialmente responsabile dell'astenia, di alcune manifestazioni neuropsichiche (come la difficoltà di attenzione e di concentrazione), di disturbi della sfera sessuale; può aggravare manifestazioni di interessamento extrarenale, ad esempio di insufficienza cardiaca, coronarica o di deficit cerebrale.

I pazienti in dialisi hanno mediamente livelli di emoglobina ridotti, e valori inferiori a 8-10 g non sono infrequenti. A parità di livelli emoglobinici, l'anemia è meglio tollerata che nei soggetti non uremici, in quanto esiste in questa condizione una minore affinità per l'ossigeno che ne condiziona una più facile cessione ai tessuti.

L'anemia dell'uremico cronico è una forma ipoproliferativa, normocromica e normocitica. La situazione ipoproliferativa è direttamente correlata al deficit di eritropoietina, ormone glicoproteico prodotto per oltre il 90% dal rene.   È anche ipotizzata l'esistenza di inibitori plasmatici dell'eritropoiesi, che si è creduto di volta in volta di identificare nel paratormone, nelle medie molecole ed in proteine a basso peso molecolare, ed una resistenza dei precursori eritroidi alla sua azione.

Anche la vita media degli eritociti è ridotta, in gran parte per un'accresciuta fragilità osmotica; particolarmente indiziati nella patogenesi di questo fenomeno sono alterazioni del trasporto di membrana degli eritrociti e, ancora una volta, il paratormone. La resistenza degli eritrociti ai fattori ossidanti è ridotta; la somministrazione di sulfamidici, alfa-metildopa, vitamina A, antimalarici e furantoina può risultare pericolosa. Un'accentuazione dell'emolisi cronica è stata anche descritta dopo somministrazione di penicillina e cefalosporine. La somministrazione di trimetoprim-sulfametossazolo può causare una carenza di acido folico.

 

Altri fattori aggiuntivi nella patogenesi dell'anemia possono essere: stati carenziali di ferro e di vitamine (acido folico, B12), di fosforo, di aminoacidi e di oligoelementi (rame, zinco); malnutrizione calorico-proteica; stress meccanici causati dalla circolazione extracorporea; l'uso cronico di anticoagulanti; perdite ematiche occulte, o dovute ai prelievi per i numerosi controlli ematochimici, e al residuo di sangue nel dializzatore a fine seduta.

L'anemia è solo parzialmente corretta dalla dialisi, ma si aggrava in caso di trattamento dialitico insufficiente. I rapporti tra "qualità" della depurazione ed anemia sono sottolineati dalla possibilità di ottenere aumenti dell'ematocrito con il miglioramento dell'efficienza dialitica, o con il trasferimento dall'emodialisi tradizionale a tecniche convettive o alla dialisi peritoneale, fenomeno attribuito da alcuni autori alla migliore depurazione di "medie molecole".

Esiste anche un possibile rapporto tra accumulo cronico di alluminio e anemia, che in questi casi assume un carattere microcitico.

Nel trattamento dell'anemia del paziente in dialisi devono essere ricercati, e se possibile corretti, i fattori patogenetici aggiuntivi e si deve in ogni caso assicurare un trattamento dialitico efficace.

La somministrazione di cloruro di cobalto è stata abbandonata per la sua tossicità; quasi abbandonata è anche quella cronica di androgeni, per gli effetti collaterali negativi a lungo termine e la potenziale epatotossicità.

A lungo l'unico trattamento diretto è stato quello trasfusionale, che era praticato di routine, o comunque con elevata frequenza, in un 3-20% di casi. Oltre al rischio di trasmissione della virus di epatite B, di quella non A-non B e dell'HIV (nel nostro ambiente, il rischio maggiore è dell'epatite non A-non B), ed all'inibizione dell'attività eritroide fondamentalmente per depressione della produzione di eritropoietina, le trasfusioni possono determinare la produzione di anticorpi citotossici, e creare uno stato di iperimmunizzazione, che può compromettere l'esito di un trapianto renale. Oggi si tende pertanto a riservarle a situazioni acute, in genere con Hb inferiore a 5 g% e con sangue "deleucocitizzato".

Un approccio più fisiologico al problema dell'anemia dell'insufficienza renale cronica è stato fornito dall'eritropoietina sintetica (EPO), ottenuta mediante tecniche di DNA ricombinante. Questo farmaco permette risultati brillanti, e ad esso si affida pertanto attualmente la terapia cronica dell'anemia grave o sintomatica, in genere con Hb intorno ai 7 g%.

Le dosi di attacco comunemente impiegate sono intorno a 50-150 U/kg in infusione endovenosa lenta al termine della dialisi. Quelle di mantenimento vengono stabilite sulla base della risposta individuale, e sono comprese in genere tra 20 e 120 U/kg.

Buoni risultati possono anche essere ottenuti con somministrazioni sottocutanee giornaliere. I dosaggi sono inferiori a quelli impiegati per vena.

Il trattamento con EPO non è scevro da effetti negativi, come la comparsa o il peggioramento di un'ipertensione arteriosa, e trombosi dell'accesso vascolare. Questi effetti collaterali sono tuttavia meno gravi se la correzione dell'anemia viene raggiunta gradualmente e se l'obiettivo finale è il raggiungimento di tassi di emoglobina intorno a 10-12 g%.

 

 

Alterazioni della coagulazione

 

Nel soggetto uremico il tempo di sanguinamento è in genere prolungato intorno ai 20-30 min. Questo deficit ha una patogenesi complessa, ma è fondamentalmente espressione di un'alterazione funzionale delle piastrine, di cui è ben documentato un difetto di aggregazione e di adesività. Per spiegare questo fenomeno sono chiamati in causa fattori dializzabili, tra i quali composti fenolici e l'acido guanidinsuccinico. Il deficit coagulatorio è in gran parte reversibile entro qualche settimana dall'inizio del trattamento dialitico; la dialisi "insufficiente" e stati di anemia grave lo accentuano; un trattamento trasfusionale o con eritropietina lo migliora.

 

 

Alterazioni leucocitarie

 

In corso di uremia alcune attività funzionali dei granulociti sono compromesse; tra queste ricordiamo una ridotta attività chemiotattica in vitro ed una riduzione numerica di recettori del C5. Il numero dei linfociti è generalmente ridotto; sono state descritte alterazioni del rapporto tra le sottopopolazioni linfocitarie, in particolare a carico dei T helper citotossici e suppressor, alle quali si attribuisce un ruolo nella compromissione immunitaria dell'uremia.

 

 

ALTERAZIONI DEL SISTEMA IMMUNITARIO; LE INFEZIONI NEI PAZIENTI IN DIALISI

 

Si tratta di deficit molto comuni che interessano a vari livelli soprattutto l'immunità cellulare ed in misura minore quella umorale; sembrano essere almeno in parte corretti dalla dialisi peritoneale, che in questo pare sortire un effetto migliore dell'emodialisi standard.   È in relazione a queste alterazioni che le sopravvivenze del trapianto di cute sono più prolungate nell'uremico rispetto a quelle nel soggetto normale. Sul piano clinico la manifestazione più importante è l'aumento della suscettibilità ad infezioni batteriche, virali e micotiche, che rappresentano in toto la seconda causa di decesso, e sono certamente tra le più importanti cause di morbilità nei pazienti in dialisi.

Tra le infezioni batteriche predominano quelle da Gram positivi, con elevata frequenza di batteriemie, di endocarditi, di infezioni osteoarticolari e polmonari e dell'accesso vascolare o peritoneale.   È descritto un aumento delle infezioni tubercolari e da germi inusuali.

La compromissione della risposta immunitaria è responsabile di un aumento della frequenza di infezioni virali a decorso subacuto e protratto, quali l'epatite da virus B, e soprattutto di condizioni di cosiddetti portatori sani, fatto che in passato ha rappresentato un'importante fonte di contagio per pazienti ed operatori sanitari.

La sistematica vaccinazione antiepatite B ha ora risolto il problema per il personale sanitario ed almeno per parte dei pazienti, tra i quali tuttavia è frequente l'assenza di una sieroconversione o la comparsa di anticorpi solo a basso titolo. L'aumento delle dosi di vaccino rispetto agli schemi in uso in soggetti sani consente di ottenere una sieroconversione, anche se spesso transitoria, in un 70-90% dei casi. Si ritiene attualmente consigliabile una precoce vaccinazione antiepatite B per tutti i soggetti con una nefropatia evolutiva.

Del tutto recentemente, tra i pazienti in dialisi, sono state segnalate percentuali molto elevate (20-30% e più) di soggetti con anticorpi antivirus dell'epatite C. Poiché si tratta di anticorpi non neutralizzanti che possono coesistere con la viremia, il significato di questo reperto è discusso.

Riduzioni della risposta anticorpale sono state anche documentate per la vaccinazione antinfluenzale (non è infrequente riscontrare una risposta adeguata solo dopo la somministrazione di una seconda dose di vaccino) e antipneumococcica.

Un problema inquietante è posto da soggetti HIV positivi. In Italia, al momento, il fenomeno interessa una esigua minoranza di casi. Non si pongono controindicazioni al trattamento dialitico, ma si richiedono le misure profilattiche abitualmente adottate (monitor dedicato, isolamento, indumenti protettivi ecc.) per evitare il contagio.

 

Secondo alcuni Autori, sarebbe riferibile al deficit immunitario un aumento del rischio di neoplasie documentato nei pazienti in dialisi, che interesserebbe particolarmente soggetti maschi e di età relativamente giovane, tra i 40 ed i 50 anni, verosimilmente perché in queste fasce di età sono meno importanti le cause di morte competitive con quella neoplastica, in particolar modo quelle cardiovascolari ed infettive.

Nei soggetti uremici lo stato di immunodepressione è accentuato dalle emotrasfusioni: questo effetto è stato sfruttato nella preparazione al trapianto di rene. Il protocollo torinese prevede la somministrazione di tre trasfusioni di sangue HLA-compatibile per ridurre il rischio di iperimmunizzazione, a distanza di venti giorni l'una dall'altra, per pazienti mai trasfusi al momento di inserimento nella lista trapianto. Non esiste un trattamento dell'immunodepressione dell'uremico. Nella terapia delle infezioni, si devono tener presenti le caratteristiche farmacocinetiche e la potenziale tossicità dei farmaci da impiegare, per evitare pericolosi fenomeni di accumulo.

 

 

ALTERAZIONI DELL'APPARATO CARDIOVASCOLARE

 

La mortalità cardiovascolare rende conto del 30-50% dei decessi dei pazienti in dialisi.

In era predialitica erano molto frequenti gli episodi di pericardite, spesso mortali. Il trattamento dialitico ha ridotto la frequenza e la gravità di tale complicanza, più rara in dialisi peritoneale che in emodialisi, pur non annullandola. I fattori eziopatogenetici della pericardite uremica sono numerosi: in alcuni casi è responsabile uno stato di uremia non ben corretto dal trattamento sostitutivo; altre volte questa complicazione interviene in soggetti apparentemente non sottodializzati: in queste condizioni è stato prospettato un possibile ruolo dell'ipertensione arteriosa, dell'iperparatiroidismo secondario, di meccanismi immunologici da immunocomplessi circolanti, l'uso cronico di eparina; gli stress chirurgici. L'eziologia può essere inoltre infettiva, batterica o virale.

L'impiego sistematico dell'ecocardiografia ha rivelato in pazienti in dialisi apparentemente trattati in maniera corretta ed asintomatici, una frequenza elevata di piccoli versamenti pericardici, che sono considerati in genere segno non di pericardite, ma di sovraccarico idrosalino cronico.

La pericardite uremica può essere acuta o cronica. Le forme acute sono caratterizzate da un processo infiammatorio con deposizione di fibrina.

Il quadro clinico è condizionato dall'entità della flogosi e dalla rapidità dell'esordio.   È in genere presente un dolore toracico, che può essere continuo e simulare quello dell'infarto, o può essere influenzato dai movimenti respiratori. Sono frequenti aritmie; compare spesso una ipotensione intradialitica. La sintomatologia può però essere larvata od assente.

All'esame obiettivo è tipico un rumore di sfregamento a va e vieni, che può essere apprezzabile solo in aree limitate, spesso in sede parasternale sinistra, e può accentuarsi in decubito laterale o prono. I rumori possono scomparire con l'aumento dell'essudato. Altri segni possono essere: scomparsa dell'itto puntale, turgore delle giugulari, aumento del turgore venoso in fase inspiratoria (segno di Kussmaul), polso paradosso (riduzione della pressione arteriosa > 12 mmHg in fase inspiratoria), edemi periferici, epatomegalia. Una dispnea importante con ortopnea, eventualmente con posizione inclinata anteriore, deve essere considerata segno di allarme per un tamponamento.

Nei casi tipici l'esame radiologico dimostra un ingrandimento del cuore "a fiasca"; l'elettrocardiogramma è spesso di scarsa utilità per l'incostanza dei classici sopraslivellamenti del tratto S-T; è fondamentale l'apporto dell'ecocardiografia che può svelare versamenti anche modesti, spesso posteriori.

La complicazione più temibile è il tamponamento cardiaco; un'altra grave conseguenza a distanza può essere una pericardite cronica costrittiva.

Il trattamento è antalgico, ed è in genere associato ad un aumento della frequenza delle sedute di dialisi, per migliorare la qualità della depurazione e ridurre più agevolmente eventuali sovraccarichi idrosalini; solo nei casi più gravi è richiesta una pericardiocentesi, peraltro non priva di rischi, o una soluzione chirurgica con una pericardiotomia sottoxifoidea o una pericardiectomia anteriore.

Aritmie cardiache di vario tipo sono molto comuni nei pazienti in dialisi, con percentuali variabili dal 17 al 90% a seconda delle casistiche, e possono essere scatenate da vari fattori: rapide variazioni delle concentrazioni elettrolitiche sieriche, in particolare di potassio e calcio; modificazioni dell'equilibrio acido-base o della ripartizione ionica intra-extracellulare.

Nell'1,4-16% dei pazienti in dialisi il decesso avviene per una morte improvvisa, in parte dei casi probabilmente dovuta ad un'aritmia.

Le extrasistoli atriali sono spesso asintomatiche, ed in genere ben tollerate; il significato clinico delle extrasistoli ventricolari varia a seconda della loro frequenza e complessità; le tachicardie sopraventricolari sono frequenti nei soggetti cardiopatici; le bradiaritmie sono un evento raro, e sono per lo più dovute ad un'iperpotassemia grave.

La terapia non può essere solo farmacologica ma richiede l'individuazione e la rimozione, ogni qualvolta possibile, delle condizioni predisponenti o scatenanti.

Da tempo è stato prospettato un possibile effetto miocardiolesivo dell'uremia, tanto che si parla di cardiomiopatia uremica come forma a sé stante; in animali da esperimento l'uremia induce un aumento del tessuto interstiziale miocardico; nell'uomo, anche indipendentemente dall'ipertensione arteriosa, sono comuni un aumento del volume cardiaco, con allargamento delle cavità sinistre, un'ipertrofia ventricolare sinistra e/o del setto interventricolare.

L'arteriosclerosi coronarica è particolarmente frequente secondo alcuni Autori. A livello microscopico si osservano una fibrosi miocardica, talora grave, fenomeni degenerativi delle cellule miocardiche e deposizioni di calcio focali o, in caso di iperparatiroidismo, massive.

Nella patogenesi della miocardiopatia uremica, che deve essere distinta da quella ipertensiva, possono intervenire: agenti "tossici"; la ritenzione idrosalina che induce sovraccarico cardiocircolatorio, con aumento del precarico; l'iperpotassiemia e l'acidosi, che hanno effetto inotropo negativo; le alterazioni della calcemia, che causano alterazioni della contrattilità e dell'eccitabilità miocardica; la deplezione di fosforo; il paratormone, i cui livelli sono in genere molto aumentati in questi pazienti; fistole arterovenose ad alta portata; l'anemia; fattori carenziali (vit. B1 e carnitina). Discusso è il ruolo cardiodepressivo dell'acetato del bagno di dialisi.

I segni clinici della cosiddetta cardiopatia uremica sono quelli di un'insufficienza ventricolare sinistra, e talora possono comparire all’improvviso, a seguito di un sovraccarico acuto idrosalino anche modesto o di una crisi ipertensiva. All'esame obiettivo possono essere presenti un ritmo di galoppo e soffi da rigurgito a carico di una o più valvole cardiache, ma i rilievi clinici sono spesso infidi. L'elettrocardiogramma può indicare la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, di alterazioni dell'onda T o del tratto ST, ma è poco indicativo. Altrettanto si può dire dell'esame RX del torace. I risultati migliori sono forniti dall'ecocardiografia.

 

Nella terapia è fondamentale la correzione dei fattori rimuovibili eventualmente implicati; la terapia farmacologica digitalica trova indicazioni nelle tachicardie sopraventricolari, nella fibrillazione atriale o nello scompenso cardiaco, in assenza di un sovraccarico idrico o di ipertensione grave. L'insufficienza renale riduce la maneggevolezza della digossina, che non è dializzabile, aumentandone la tossicità. Si raccomanda in genere una dose iniziale di 0,25 mg/die per 2-3 giorni; la dose di mantenimento è in genere 0,125 mg a giorni alterni. L'obiettivo è di mantenere valori di digossinemia intorno a 1 ng/ml.   È necessaria una regolare monitorizzazione del farmaco. Altri Autori preferiscono la digitossina, in relazione al suo metabolismo prevalentemente epatico. I vasodilatatori arteriolari (idralazina e minoxidil) possono migliorare la gittata cardiaca riducendo l'impedenza al deflusso; quelli venosi (nitroglicerina ed isosorbide dinitrato) agiscono aumentando la capacità del comparto venoso. Gli ACE-inibitori, che inducono una favorevole ridistribuzione della gittata, possono essere usati in condizioni di scompenso, ma con attenta monitorizzazione della potassiemia. I nitroderivati sono sicuri, ma possono causare ipotensione. Tra i betabloccanti sono più usati il propranololo ed il metoprololo, che hanno un metabolismo epatico.

Nel trattamento delle coronaropatie, le indicazioni all'angioplastica e agli interventi a cuore aperto sono simili a quelli nei pazienti non uremici, pur con rischi più elevati. L'ipetensione arteriosa nell'insufficienza renale cronica evolve da una fase iniziale con gettata cardiaca aumentata e resistenze periferiche normali, ad una fase caratterizzata da un aumento delle resistenze periferiche. L'aumento della gettata cardiaca consegue all'espansione di volume extracellulare ed all'anemia; l'aumento delle resistenze periferiche riconosce una genesi polifattoriale (espansione extracellulare, alterazioni del trasporto cellulare del sodio, attivazione del sistema renina-angiotensina e del sistema nervoso autonomo e, forse, riduzione delle sostanze ad azione vasodilatatrice di produzione renale).

Il controllo dell'ipertensione arteriosa nel paziente in dialisi è considerato di grande importanza per la riduzione della mortalità cardiovascolare, ma non è sempre agevole; i trattamenti ultrabrevi (dialisi di circa 3 ore) e 1'impiego dell'eritropoietina, per il suo effetto ipertensivante, possono renderlo più difficile; ne consegue che la regolarizzazione dei valori pressori di questi pazienti non è sempre del tutto soddisfacente.

Per il controllo dell'ipertensione sono fondamentali innanzitutto la restrizione dietetica dell'apporto di sodio e di acqua, un'adeguata disidratazione in corso di dialisi e variazioni mirate del tenore di sodio della soluzione dializzante.

Per contribuire al mantenimento del "peso secco" nei pazienti con diuresi residua, alcuni Autori hanno proposto l'impiego sistematico di diuretici dell'ansa a dosi elevate (per la furosemide 500-1000 mg/die) che possono però causare effetti collaterali di rilievo (ototossicità).

Nella scelta degli antiipertensivi si preferiscono in genere, nell'ordine, betabloccanti, ACE-inibitori e calcio-antagonisti. Tra i betabloccanti, teoricamente indicati nei pazienti con coronaropatia ischemica o con aritmie, sono da preferire quelli a metabolizzazione epatica, per il minor rischio di accumulo e di bradicardia. Gli ACE inibitori potrebbero avere un'indicazione elettiva nei casi con elevata attività reninica o con insufficienza cardiaca, ma, specialmente nelle prime settimane, è possibile la comparsa di iperpotassiemia; per la loro prevalente eliminazione renale, non si devono superare 50 mg/die per il captopril e 20 mg/die per 1'enalapril. I calcioantagonisti hanno una buona efficacia e possono essere impiegati con sicurezza. La nifedipina per via sublinguale (10-20 mg) è molto efficace e maneggevole nel controllo delle crisi ipertensive.

I farmaci ad azione centrale (clonidina, alfametildopa) possono causare secchezza delle fauci, stipsi, sedazione ed ipotensione ortostatica; il loro impiego nei pazienti in dialisi è quindi limitato. Sono possibili rebound ipertensivi in caso di sospensione della clonidina; la dialisi rimuove significativamente l'alfametildopa, per cui può esserne richiesta una dose supplementare a fine seduta.

Il minoxidil ha rappresentato la prima valida alternativa farmacologica alla nefrectomia nei casi di ipertensione resistente al trattamento dialitico; sono stati segnalati versamenti pericardici e la frequente comparsa di irsutismo.

I simpaticolitici ed i vasodilatatori possono influenzare negativamente la tolleranza dialitica: è consigliabile evitarne la somministrazione nelle ore precedenti la dialisi.

Per il trattamento delle crisi ipertensive, può essere impiegato:

- nitroprussiato di sodio alla dose di 0,5 microgrammi/kg/min per infusione;

- diazossido e.v., alla dose di 2-6 mg/kg, in meno di 20". L'effetto compare in 1-5 min e può durare per 12 ore senza ampie oscillazioni.   È sconsigliato in caso di ischemia o infarto miocardico, in presenza di aneurisma aortico dissecante e di emorragia intracranica;

- labetalolo alla dose di 200 mg in 250 ml di glucosata al 5%.   È controindicato nei pazienti con insufficienza cardiaca congestizia, asma, bradicardia sinusale o blocchi atrioventricolari;

- clonidina e.v., che induce un effetto ipotensivo in 1-2 min. Le somministrazioni possono essere orali, di 0,150 mg seguiti da ulteriori somministrazioni orarie per os fino a raggiungere l'effetto ipotensivante desiderato, senza superare la dose totale di 0,7 mg;

- urapidil in bolo lento di 25 mg, ripetibile per 3 volte se non si ottiene in 2 minuti alcun effetto ipotensivo; la terza somministrazione può essere aumentata a 50 mg;

- nifedipina (10 mg) per via sublinguale; 1n genere i valori pressori si riducono di un 20% in circa 10', con scarsi effetti collaterali;

- captopril per via sublinguale.

Proposta negli anni '60 e'70 per risolvere casi di ipertensione grave e resistente alla terapia farmacologica e dialitica, la nefrectomia bilaterale è stata poi abbandonata, con l'affinarsi delle tecniche di ultrafiltrazione e la disponibilità di farmaci ipotensivi, e per la grave anemizzazione ed ipotensione che sono abitualmente indotte.

 

 

ALTERAZIONI DELL'APPARATO OSTEOARTICOLARE

 

L'osteodistrofia uremica in genere non viene completamente corretta dal trattamento sostitutivo, può peggiorare con il proseguimento della dialisi e può essere così invalidante da compromettere il successo del trattamento.

All'inizio degli anni '80 si temeva che le alterazioni osteodistrofiche potessero rappresentare il limite più importante della terapia dialitica a lungo termine. Oggi, nei pazienti che collaborano correttamente, siamo in grado di prevenire e di trattare le sue manifestazioni più gravi. Pazienti con insufficienza renale ad evoluzione molto lenta possono già giungere all'inizio del trattamento sostitutivo con lesioni molto marcate: la loro prevenzione deve pertanto essere iniziata già prima della dialisi.

 

Con il termine di osteodistrofia uremica si indica classicamente un insieme di lesioni che comprende due componenti fondamentali: l'osteite fibrosa, dovuta all'iperparatiroidismo secondario, e l'osteomalacia (nel bambino, il rachitismo), alle quali si associano con minor rilievo l'osteosclerosi e l'osteoporosi. Più recentemente sono state identificate altre due possibili componenti, a genesi iatrogena: l'osteomalacia vitamina D resistente da accumulo cronico di alluminio e la patologia da "amiloide correlata alla dialisi".

Alterazioni dell'omeostasi del calcio e del fosforo si verificano nelle prime tappe dell'insufficienza renale cronica.   È nozione classica che il primo momento della complessa catena patogenetica dell'osteodistrofia sia un aumento della fosforemia da deficit escretorio; l'iperfosforemia provoca una riduzione della calcemia che determina, a sua volta, un'iperattivazione paratiroidea.

  È inoltre possibile che l'iperfosforemia sia capace di per sé di stimolare direttamente la produzione di paratormone (PTH). L'iperfosforemia concorrerebbe inoltre a determinare una resistenza scheletrica all'azione ipercalcemizzante del PTH, i cui livelli si elevano ulteriormente. All'iperincrezione di PTH consegue un aumento dell'escrezione del fosforo, che ripristina la normalità della calcemia e della fosforemia, ma il risultato è un aggiustamento omeostatico a livelli di attività paratiroidea più elevati che in precedenza.

Nella genesi dell'ipocalcemia tuttavia intervengono altri fattori. Il più importante è la riduzione della produzione renale dell'1,25 (OH)2 colecalciferolo (o calcitriolo), che è la forma ormonale più attiva di vitamina D. Esisterebbero anche alterazioni funzionali della vitamina D o dei suoi metaboliti, almeno in parte legate a deficit recettoriali specifici. Anche alterata è la produzione di 24,25 (OH)2, colecalciferolo, le cui conseguenze non sono ancora chiarite.

La diminuita produzione di calcitriolo è abitualmente considerata come conseguenza diretta della riduzione del parenchima funzionante; tuttavia, poiché interviene precocemente in corrispondenza di clearance della creatinina tra 50 e 80 ml/min, si è anche ipotizzato un effetto inibitore da parte di un elevato tenore in fosforo a livello del tubulo prossimale, dovuto all'aumento del carico di fosfati per unità nefronica residua.

La diminuzione dei livelli plasmatici di calcitriolo deprime l'assorbimento intestinale di calcio e di fosforo e riduce la calcemia; inoltre a questa vitamina D è attualmente riconosciuto un effetto soppressore diretto sull'attività paratiroidea. Secondo alcuni Autori, in alternativa all'iperfosforemia, il momento centrale dell'innesco patogenetico dell'osteodistrofia sarebbe appunto il deficit di produzione di questa vitamina D.

L'iperparatiroidismo è responsabile di numerosi effetti sistemici: induce un aumento del riassorbimento osseo e dell'attività osteoclastica; causa miopatie prossimali per aumento di Ca nelle fibrocellule, e calcificazioni metastatiche.

Le alterazioni del metabolismo della vitamina D sono responsabili della riduzione dell'assorbimento intestinale del calcio e dei difetti di mineralizzazione dell'osteoide, con conseguente osteomalacia. Alla difettosa mineralizzazione contribuiscono anche gli squilibri a carico del Mg e di elementi in tracce. Come sarà successivamente discusso, un ruolo importante nella genesi di un'osteomalacia resistente alla vitamina D può essere svolto dall'alluminio.

La sintomatologia clinica varia a seconda che prevalga la componente iperparatiroidea od osteomalacica, o che si tratti di una forma mista. Sono caratteristici dolori ossei, generalmente al rachide e agli arti inferiori; è abbastanza comune una compromissione artromuscolare, elettiva a livello scapolo-omerale, rachideo, e coxofemorale; il frequente prurito è dovuto almeno in parte all'iperparatiroidismo, per deposizione cutanea di calcio, e per riduzione della soglia agli stimoli.

La componente osteomalacica è causa di deformità scheletriche, con quadri di rachitismo nel bambino e, nell'adulto, di deformità toraciche, scoliosi, cifosi e fratture, specie costali, vertebrali e del bacino.

La componente legata all'iperparatiroidismo secondario si esprime in fenomeni di riassorbimento sottoperiosteo che possono portare, tra l'altro, alla "scomparsa" dell'immagine radiologia dell'estremità distale delle falangi e delle clavicole, in formazioni lacunari ossee, particolarmente temibili se si verificano a livello di segmenti ossei portanti, come il collo femorale; in calcificazioni ectopiche, talora enormi in sede periarticolare, nelle pareti arteriose, eventualmente con fenomeni ischemici distali, nelle congiuntive e nella cornea (red eyes). Un'ipercalcemia sintomatica (con torpore, stato confusionale, prurito intenso) è rara; l'iperfosforemia è abituale. Le calcificazioni metastatiche sono correlabili con un prodotto: calcio x fosforo > 70.

 

 

Patologia ossea da alluminio

 

In numerose reti idriche urbane viene fatto uso abituale di solfato di alluminio per chiarificare le acque, e di conseguenza l'acqua potabile può essere molto ricca di questo metallo, tradizionalmente ritenuto innocuo. Poiché inizialmente non si prendeva in considerazione questa eventualità, ed i sistemi impiegati per il trattamento delle acque erano poco o nulla efficienti nell'estrarlo, in molti centri dialisi i pazienti erano esposti ad un importante accumulo di alluminio che diffonde dal bagno di dialisi al sangue. Inoltre, per anni, i pazienti in dialisi sono stati sottoposti alla somministrazione sistematica di gel di alluminio per os, con la finalità di chelare il fosforo degli alimenti, ridurne l'assorbimento intestinale, controllare meglio l'iperfosforemia, e prevenire l'iperparatiroidismo secondario. A differenza che nel soggetto normale, nel paziente uremico, anche nel caso di somministrazione orale si può verificare un deposito cronico di alluminio nell'organismo.

Solo da una quindicina d'anni è stata riconosciuta la possibilità che l'alluminio possa essere responsabile di una specifica forma di encefalopatia, di anemia microcitica e di osteomalacia.

L'alluminio interferisce ritardando la formazione e l'accrescimento dei cristalli di idrossiapatite. Il suo ruolo nella patologia ossea è assai complesso e sembra che il suo effetto venga antagonizzato dallo stato di iperattività delle paratiroidi. Dopo paratiroidectomia interverrebbe un effetto permissivo nella deposizione del metallo sul fronte di calcificazione, con aggravamento dell'osteomalacia.

 

 

AMILOIDOSI CORRELATA ALLA DIALISI: PATOLOGIA DA BETA2-MICROGLOBULINA

 

Da tempo era nota la possibilità che i pazienti in dialisi sviluppassero una sindrome del tunnel carpale, i cui sintomi principali sono dolore e intorpidimento del pollice, dell'indice, del medio e della metà radiale dell'anulare. L'esame obiettivo rivela la comparsa di dolore che si irradia dal palmo verso le dita alla percussione del nervo mediano in corrispondenza del tunnel carpale (segno di Tinel), ed aumento delle parestesie, con senso di pizzicore, quando il polso è tenuto fermo in massima flessione. Sono diagnostici i test elettrofisiologici.

 

La sindrome del tunnel carpale è in genere riscontrabile in pazienti con anzianità dialitica superiore a 5-7 anni, e sembra più rara in quelli in dialisi peritoneale od in emofiltrazione; la sua comparsa non correla con il sesso, con la nefropatia di base né con la presenza di accesso vascolare sull'arto affetto.

In soggetti nei quali l'uremia non era dovuta ad amiloidosi è stata identificata a livello del tunnel la presenza di una sostanza con caratteristiche tintoriali simili a quelle dell'amiloide secondaria e nella quale, a differenza che nelle altre forme prima conosciute, sono stati riscontrati livelli molto elevati di beta2-microglobulina (peso molecolare 11.818 dalton), sostanza prodotta principalmente dai linfociti, dotata di numerose attività fisiologiche e normalmente filtrata dai glomeruli, riassorbita e degradata dai tubuli renali. I pazienti trattati con filtri dializzanti con membrane di cuprophan (che non la rimuove dal plasma a causa del suo elevato peso molecolare) presentano livelli di beta2-microglobulina più elevati di quelli trattati con filtri in poliacrilonitrile; poiché i livelli di questa proteina possono aumentare in corso di trattamento condotto con cuprophan, è nata l'ipotesi che tale membrana non solo non sia in grado di rimuovere la proteina, ma possa facilitarne la generazione, forse in parte con un meccanismo di attivazione complementare. Con gli attuali schemi di dialisi, anche filtri ad alta permeabilità non riescono peraltro a riequilibrare completamente il ricambio della beta2-macroglobulina. Questa amiloide è stata definita come "correlata alla dialisi", e la sua deposizione può avvenire, oltre che nella sinovia e nelle guaine tendinee del tunnel carpale, nella sinovia e nelle capsule di alcune grandi articolazioni, nei dischi intervertebrali e nei ligamenti paravertebrali, ed a livello osseo in cisti in varie sedi (collo del femore, condili femorali, metacarpo, polso, spalla, ginocchio, clavicola, acromion).

Sono state anche attribuite alla deposizione di amiloide artropatie destruenti, caratterizzate da un rapido restringimento della rima articolare, con erosioni ossee subcondrali e/o geodi, senza osteofitosi, ma la loro patogenesi resta ancora controversa.

Il corrispettivo clinico dei depositi di amiloide, oltre alla sindrome del tunnel carpale, è costituito da artralgie croniche, il più spesso localizzate alle spalle, o anche alle ginocchia, ai polsi ed alle dita, frequentemente con esacerbazione durante la seduta dialitica. Sono possibili fratture patologiche, artropatie destruenti, tumefazioni articolari croniche, versamenti endoarticolari, talora con emartro, tenosinoviti croniche, specie dei flessori delle dita, eventualmente con "dito a scatto".

Nella sorveglianza laboratoristica del ricambio fosfocalcico e dell'osteodistrofia uremica hanno importanza:

- la determinazione regolare della calcemia (in genere solo modestamente aumentata nell'iperparatiroidismo; il suo aumento è più spesso legato ad un sovradosaggio di vitamina D) e della fosforemia;

- il dosaggio della fosfatasi alcalina, il cui aumento (se gli enzimi epatici hanno valore normale) è in buona correlazione con l'entità dell'iperparatiroidismo secondario;

- il dosaggio del paratormone (esistono diversi radioimmunossay che reagiscono con la porzione N terminale, con quella C terminale, la regione media, o con loro combinazioni), che può essere aumentato oltre 200 volte rispetto alla norma. Valori bassi in presenza di osteomalacia sono caratteristici dell'intossicazione da alluminio;

- la determinazione dell'alluminiemia. Quando vi siano elementi anamnestici, radiologici o clinici in favore di un accumulo di alluminio e non vi sia un'evidente iperalluminiemia si può ricorrere ad un test di mobilizzazione con la desferrioxamina.

Nello studio radiologico dell'osteodistrofia uremica ci si avvale di film a grana fine per mammografia. I segni radiologici principali di iperparatiroidismo secondario sono innanzitutto rappresentati da riassorbimento subperiosteo, che si osserva bene a livello delle falangi, specie sulla superficie radiale di quelle medie, e sul flocculo delle falangette, nella pelvi, nell'estremità distale delle clavicole, a carico della mandibola, con scomparsa della lamina dura se vi sono denti, e del cranio. Per un'indagine precoce si presta bene lo studio della mano. Altri segni caratteristici sono cisti ossee (tumori bruni), strie corticali e immagini "a vetro smerigliato" del cranio, aree di osteosclerosi e di neostosi periostale, calcificazioni vascolari e dei tessuti molli.

Segni principali di osteomalacia sono deformità scheletriche (bacino a cuore di carta da gioco, torace a botte, cifosi dorsale), schiacciamento vertebrale, fratture costali e del bacino, pseudofratture.

Spesso solo l'indagine ossea bioptica è dirimente per la diagnosi di osteodistrofia uremica ed il preciso riconoscimento delle sue diverse componenti.

La terapia dell'osteodistrofia uremica si avvale di una serie di misure finalizzate a contenere o contrastare l'iperfosforemia e l'ipocalcemia, che sono i fattori patogenetici fondamentali, e di un corretto trattamento sostitutivo.

La dieta deve avere un contenuto di fosforo inferiore a 800 mg/die.

La somministrazione di gel di alluminio è stata ora quasi completamente abbandonata in favore di quella di sali di calcio (carbonato di calcio: 3 o più g/die) e di magnesio, utili anche per prevenire o ridurre le lesioni osteomalaciche, in aggiunta alla somministrazione di calcitriolo (in genere alla dose di 0,25-0,50 microgrammi/die), ed eventualmente di altre vitamine D.

Nei casi più conclamati di iperparatiroidismo si rende necessaria la paratiroidectomia: controindicazione relativa è un importante accumulo osseo di alluminio. In tal caso è necessario un preventivo trattamento chelante con desferrioxamina.

 

 

COMPROMISSIONE NEUROLOGICA

 

In fase predialitica ed in corso di trattamento dialitico sono piuttosto frequenti fenomeni di depressione e di ansia. Questa sintomatologia, facilmente spiegabile con le particolari condizioni di vita dei pazienti, deve essere affrontata assicurando una disponibilità sul piano medico ed umano che riduca al minimo incertezze e timori. Un'ampia informazione sulle finalità dei provvedimenti medici e tecnici ed il sistematico coinvolgimento del paziente nel proprio trattamento sono utili anche a questi fini.

La diagnosi differenziale con l'encefalopatia uremica, da alluminio, o su base aterosclerotica può non essere facile.

Con lo svilupparsi della sindrome uremica, le manifestazioni cliniche dell'encefalopatia possono evolvere da una semplice riduzione dell'attenzione e delle capacità intellettive, in genere con irritabilità o apatia, sino ad uno stato di confusione, talora con allucinazioni, di sonnolenza e poi di coma. Sono in genere contemporaneamente presenti tremori con fini scosse muscolari durante i movimenti degli arti, asterixis e mioclonie.

Nei pazienti in trattamento medico conservativo le forme condannate di encefalopatia uremica sono ora del tutto eccezionali e in genere se ne colgono solo i segni iniziali, che regrediscono rapidamente con l'inizio del trattamento dialitico.

 

Nei soggetti da anni in trattamento sostitutivo sono frequentemente presenti alla tomografia computerizzata immagini di atrofia cerebrale e le indagini elettrofisiologiche possono mettere in evidenza alterazioni di vario tipo. La possibilità che in corso di un trattamento dialitico correttamente condotto possa comparire una cerebropatia uremica clinicamente evidente è peraltro discussa.

Lesioni su base arteriosclerotica ed eventualmente ipertensiva, con un'encefalopatia sottocorticale arteriosclerotica, TIA, infarti ed emorragie cerebrali non sono invece rari.

Nello scorso decennio è stata descritta ed attribuita ad intossicazione da alluminio un'encefalopatia peculiare, con disturbi del linguaggio (inizialmente con caratteristici intoppi nella parola durante formulazione di frasi lunghe e complesse), deterioramento intellettivo sino alla demenza, contrazioni muscolari sino a convulsioni generalizzate, e fenomeni di aprassia sino ad immobilità totale. Per l'attenzione che si pone attualmente nella prevenzione degli accumuli di alluminio, queste manifestazioni sono ora praticamente scomparse.

I sintomi clinici più classici di interessamento del sistema nervoso periferico dell'uremia cronica sono quelli di una neuropatia periferica, sensitiva e motoria, con parestesie distali, riduzione sino alla perdita dei riflessi inizialmente ai piedi e poi rotulei, debolezza e successivamente atrofia muscolare distale agli arti inferiori. E frequente la cosiddetta "restless leg syndrome" che si manifesta con necessità di muovere le gambe o di camminare quando il paziente si riposa o si mette a letto.

Negli scorsi anni si considerava la neuropatia periferica potenzialmente molto invalidante a lungo termine e se ne erano ampiamente studiati i possibili rapporti con la ritenzione di medie molecole. Fortunatamente oggi sappiamo che questa complicazione può essere contenuta da un tempestivo inizio della dialisi e che gli schemi di trattamento oggi più diffusi consentono di farla regredire, o almeno di arrestarne l'evoluzione. La patogenesi è complessa: verosimilmente sono implicati fenomeni ritentivi ed il trapianto di rene riesce a ripristinare una normale situazione tranne che nei casi più evoluti, ma la ricerca di medie molecole neurotossiche non è approdata a risultati concreti. Anche in queste manifestazioni è stato prospettato un possibile ruolo del paratomone, che interverrebbe pure nella patogenesi, peraltro multifattoriale, dell'atrofia muscolare.

Alterazioni del sistema nervoso autonomo non sono rare e possono essere causa di ipotensione ortostatica, di modificazioni della motilità intestinale e di compromissione dell'attività sessuale.

 

 

PATOLOGIA GASTROENTERICA

 

Alterazioni morfofunzionali dell'apparato digerente compaiono nelle fasi terminali dell'uremia e possono essere manifeste nei pazienti in trattamento dialitico. Peraltro l'inizio di una regolare depurazione consente in genere una regressione della sintomatologia gastroenterica. Per tale motivo nella patogenesi si ritiene implicata la ritenzione di prodotti azotati; concorrerebbero alle alterazioni della barriera mucosa gastrica alterazioni arteriolari, la diatesi emorragica ed alcuni farmaci, quali i chelanti del fosforo sotto forma di idrossido di alluminio.

L'interessamento del tratto gastroenterico può avere estensione variabile, con coinvolgimento sia del tratto digerente alto (lesioni ulcerative, microemorragie, lesioni necrotiche esofagee e gastriche) sia del colon (angiodisplasie, ulcere, pseudomembrane). Dati peraltro non univoci indicherebbero nell'ipergastrinemia un elemento fondamentale nella genesi delle alterazioni gastriche dell'uremico.

Il quadro clinico è polimorfo, e comprende inizialmente una vaga sintomatologia dispeptica, poi nausea, vomito, epigastralgie, anoressia. All'indagine endoscopica e radiologia sono frequenti reperti di gastroduodenite, esofagite e lesioni ulcerative.

Per quanto concerne la patologia epatica, deve essere posta in evidenza la particolare frequenza di compromissione virale (l'epatite B è ora in netta riduzione, a differenza di quella C). Accanto a questi quadri ben definiti si possono avere reperti laboratoristici di aumento aspecifico delle transaminasi e degli isoenzimi epatici della fosfatasi alcalina, spesso di difficile interpretazione.

 

 

COMPROMISSIONE POLMONARE

 

La forma più comune di maggior importanza pratica è un accumulo, soprattutto interstiziale, di liquidi con l'aspetto del cosiddetto "polmone uremico" o "da acqua".

La diagnosi clinica è suggerita dalla comparsa acuta o subacuta di una dispnea ingravescente, con reperti auscultatori inizialmente nella norma, e che solo con l'aggravarsi del sovraccarico acquistano progressivamente le caratteristiche semeiotiche dell'edema polmonare. Il reperto radiologico più tipico è di opacità a farfalla, che rispetta i campi periferici. I quadri sono però vari, e non è raro che sia simulata la presenza di focolai broncopneumonici multipli. D'abitudine un'energica sottrazione di liquidi con la dialisi consente la regressione di questa complicanza in poche ore. Non rare sono microcalcificazioni polmonari, attribuite all'iperparatiroidismo, o all'accumulo di alluminio, e che possono essere rivelate con tecniche isotopiche (99mTc difosfonato).

Nei pazienti in dialisi sono inoltre riscontrabili versamenti pleurici, talora a carattere fibrinoso-emorragico che possono indicare una situazione di sottodialisi o di sovraccarico idrosalino, ma che possono anche presentarsi durante trattamenti apparentemente corretti. In corso di dialisi peritoneale possono essere osservati versamenti pleurici anche cospicui, che sono riferiti a comunicazioni congenite con la cavità peritoneale; in genere impongono il passaggio ad un altro trattamento.

 

 

ALTERAZIONI ENDOCRINE

 

Nell'uremico cronico si rileva un'importante compromissione dell'attività sessuale con, nel maschio, un'elevata incidenza di impotenza e di riduzione della libido, oligospermia, ginecomastia, aplasia delle cellule germinali e, nella femmina, cicli anovulatori ed irregolarità mestruali, sino all'amenorrea.

I fattori responsabili sono multipli: accanto alle turbe endocrine (nella femmina, riduzione degli estrogeni e del progesterone; nel maschio, ridotti livelli di testosterone; in entrambi i sessi, aumento di LH, PRL, FSH ed alterazioni di recettori ipotalamici) sono da considerare altre cause, come gli stress psichici, gli stati depressivi, fattori nutrizionali e iatrogeni, la neuropatia uremica, l'insufficienza vascolare degli organi genitali.

Particolare interesse era stato suscitato da una correlazione tra alterazioni della sfera sessuale e deficit di zinco che, da indagini successive, non pare tuttavia rivestire un ruolo di rilievo.

Nonostante siano riportati casi di aumento della potenza sessuale e della libido dopo assunzione di bromocriptina, l'uso di tale farmaco è limitato da fenomeni di ipotensione arteriosa anche importanti.

Una gravidanza è stata riportata in meno dell'1% delle donne in dialisi in età feconda, con netto aumento dei rischi materni e fetali. Queste alterazioni ormonali regrediscono dopo trapianto, con ripresa anche della capacità riproduttiva.

 

I livelli di ACTH e cortisolo sono normali (la cortisolemia aumenta dopo dialisi extracorporea per risposta allo stress); quelli di aldosterone sono generalmente elevati.

L'alterata sintesi ormonale da parte delle cellule pancreatiche è uno dei fattori che si ritiene intervengano nelle alterazioni del metabolismo glicidico, presente in circa il 50% dei pazienti uremici, accanto ad una resistenza recettoriale periferica ed alla ridotta clearance metabolica di insulina e glucagone. Tali squilibri si traducono in un'alterata risposta al carico glucidico, iperinsulinemia, iperglucagonemia, ipoglicemie spontanee ed a digiuno, ridotta richiesta insulinica nei diabetici insulinodipendenti e sono scarsamente corretti dal trattamento sostitutivo.

Imputabili invece a deficit enzimatici (lipoproteinlipasi, locitina-colesterol-aciltransferasi) sono le alterazioni del metabolismo lipidico: aumento dei trigliceridi in VLVL e LDL; diminuzione del colesterolo HDL; aumento del colesterolo VLDL; riduzione della ApoA; aumento della ApoB. Il trattamento dialitico non normalizza tali alterazioni, che tendono addirittura ad aggravarsi in caso di impiego del tampone acetato in emodialisi, e per il carico cronico di glucosio in caso di dialisi peritoneale; l'approccio terapeutico è di tipo dietetico-farmacologico. Interessanti risultati sono stati segnalati con la supplementazione della dieta con olio di pesce.

 

 

IL PROBLEMA DELLA MALNUTRIZIONE DEL PAZIENTE IN DIALISI

 

Nei pazienti in dialisi, specie in quelli anziani o con maggiore età dialitica, sono frequenti fenomeni di malnutrizione. Il decesso in condizioni di cachessia non è raro tra gli ultrasettantenni.

Nella patogenesi della malnutrizione concorrono numerosi fattori catabolici, su base ormonale e depletiva, parte dei quali sono indotti dal trattamento dialitico stesso, ma per lo più sono legati ad un insufficiente apporto nutrizionale.

  È evidente quindi l'importanza di prestare molta attenzione alla nutrizione, che dovrebbe assicurare 1-1,5 g di proteine (il 50% delle quali con elevato valore biologico) e 35 KcaVkg di peso ideale/die (se il paziente non è obeso). L'apporto fosforico deve essere inferiore a 800 mg/die: la limitazione è ottenuta con la restrizione dei latticini ed il controllo dell'introduzione delle proteine animali; quello di sodio deve essere stabilito in base ai valori pressori ed all'entità dell'incremento ponderale interdialitico.

 

 

Risultati del trattamento sostitutivo della funzione renale

 

Data l'eterogeneità anagrafica e clinica dei pazienti che da anni stiamo accettando in dialisi, la considerazione globale delle sopravvivenze in dialisi ha perso di significato, mentre si tende a fare riferimento ad analisi che tengano conto delle fasce di età e della presenza o meno di condizioni di alto rischio clinico (cardiopatie, vasculopatie gravi, diabete, ipertesione arteriosa grave, malattie autoimmuni e neoplastiche ecc).

Secondo l'aggiornamento al dicembre '88 del Registro Piemontese di Dialisi e Trapianto i pazienti che iniziano la dialisi con meno di 45 anni senza condizioni di rischio hanno una sopravvivenza a 3 anni di circa il 90%; i soggetti della fascia di età tra 65 e 69 anni senza condizioni di rischio, a 4 anni, del 47%; per questa stessa fascia di età, in presenza di condizioni di rischio all'inizio del trattamento i valori scendono al 32%.

Di grande interesse pratico è poi la considerazione che, qualora le differenti metodiche siano utilizzate tenendo conto delle reali necessità del paziente con una libera scelta all'inizio del programma di dialisi (che privilegi i trattamenti autogestiti ed agevoli trasferimenti successivi da un tipo ad un altro di trattamento), si ottengono attualmente risultati equivalenti in termini di sopravvivenza.

Agli ottimi risultati in termini di sopravvivenza fanno riscontro livelli di riabilitazione decisamente favorevoli. Al 31-12-1988, dei 1939 pazienti in trattamento, il 48,5% svolgeva un'attività lavorativa a tempo pieno o parziale; il 25% era abile al lavoro ma non svolgeva un'attività lavorativa, in genere per l'età; il 22% era inabile al lavoro ma autosufficiente; solo il 4,5% dei casi non era autosufficiente.

 

 

Sostituzione artificiale e naturale della funzione renale: tecniche contrapposte o complementari?

 

Nel corso degli anni '70 era nata una vivace discussione sul successo di dialisi e trapianto di rene visti come contrapposti, ed era anche stata prospettata l'ipotesi che gli anni '80 sarebbero stati gli anni del trapianto, mentre quelli '90 sarebbero probabilmente stati nuovamente gli anni della depurazione extrarenale, in relazione ad un suo prevedibile sviluppo concettuale e tecnologico.

Posizioni di questo tipo sono da considerarsi del tutto superate.

Contemporaneamente a quella delle metodiche artificiali, anche l'evoluzione del trapianto di rene è stata in effetti straordinaria, ed è tuttora in corso. La sopravvivenza del paziente dopo trapianto di rene è ora su valori intorno all'85% al 4° anno, ed anche quella di soggetti con oltre 50 anni, inizialmente esclusi da questo programma, già supera, a questo intervallo di osservazione, l'80%.

A sua volta, la sopravvivenza del rene con gli attuali schemi di trattamento con ciclosporina, eventualmente associata all'azatioprina, è intorno al 75% a due anni.

Il trapianto di rene può pertanto essere considerato un trattamento sicuro; se si tiene conto anche della maggiore fisiologicità della sostituzione naturale, viene pertanto a cadere ogni remora al programmarlo in tutti i soggetti che non abbiano controindicazioni, essenzialmente rappresentate dall'età (peraltro già si accettano anche soggetti ultrasessantenni, se in ottime condizioni cliniche), da gravi patologie d'organo o sistemiche e da lesioni neoplastiche.

Orientativamente almeno il 40% dei soggetti avviati alla dialisi nell'ambito di un'accettazione aperta ha indicazioni al trapianto di rene. Su queste basi sostituzione artificiale della funzione renale e trapianto di rene debbono far parte integrante di tutti i programmi di trattamento dell'uremia cronica.

 

 

Prospettive di sviluppo

 

Data la protratta sopravvivenza dei pazienti in dialisi, l'espansione del pool globale degli uremici cronici in trattamento sostitutivo artificiale può essere limitata soltanto, ed in una certa misura, dall'attuazione di un piano di prevenzione e dal trapianto renale. Uno stato di equilibrio potrebbe essere raggiunto solo qualora il numero dei nuovi ingressi pareggiasse quello dei trapianti e dei decessi.

Il trapianto di rene, da donatore vivente o da cadavere, sta contribuendo al trattamento di un numero crescente di pazienti, ma in moltissime aree questo contributo è ancora insufficiente: alla fine del 1988 in Italia i soggetti con trapianto di rene funzionante erano solo circa 4500. In USA nel 1988 risultano esser stati effettuati circa 9000 trapianti di rene. In Italia restano da risolvere numerosi problemi clinici ed organizzativi, primo fra tutti il reperimento degli organi. Un'insufficiente educazione sanitaria delle popolazione, scarsamente sensibilizzata al problema, carenze di tipo strutturale ed organizzativo ed una legislazione inadeguata hanno impedito nel nostro Paese gran parte dei possibili prelievi di rene da cadavere; la donazione da vivente è al momento attuale considerata una terapia da riservare a casi selezionati.

 

La prevenzione costituisce un campo di intervento razionale e promettente: in numerose malattie renali è oggi possibile evitare o rallentare il decorso verso l'uremia, purché la diagnosi sia precoce e l'approccio terapeutico corretto.

La diminuzione del numero di pazienti di età inferiore a quarant'anni avviati alla dialisi in Piemonte a partire dall'inizio degli anni '80 può essere considerato un primo risultato dell'opera di prevenzione svolta da un numero sempre maggiore di operatori sanitari.

Nonostante queste prospettive, in quasi tutti i Paesi, la dialisi continua a dover sostenere un carico molto gravoso: in Italia nel 1987 sono stati aperti 29 nuovi centri in aggiunta ai 461 già operanti nel 1986.

Per quanto riguarda il progressivo affinamento delle metodiche di depurazione extrarenale, un primo indirizzo è quello di ottenere depurazioni sempre meglio tollerate ed efficaci, in modo da poter trattare con risultati ancora migliori la popolazione crescente di soggetti anziani che sarà in futuro avviata alla dialisi. Probabilmente questa evoluzione sarà soprattutto a carico dei procedimenti convettivi e della dialisi peritoneale.

Un secondo indirizzo ha come obiettivo fondamentale la riduzione dei tempi di trattamento, con metodiche che saranno, almeno inizialmente, riservate ai soggetti giovani, in migliori condizioni cliniche. Anche in questo caso i procedimenti convettivi, eventualmente associati a quelli diffusivi, sembrano destinati al successo.

Molto ci attendiamo infine dall'informatizzazione della conduzione e della sorveglianza dei trattamenti e dalla telemedicina, che dovrebbe anche consentire di ottenere in condizioni di sicurezza una più elevata frequenza di trattamenti extraospedalieri.

 

 

Letture consigliate

 

 

Akamal M., Massry S.G., Goldstein D.A. et al.: Role of parathyroid hormones in the glucose intolerance of uremia. J. Clin. Invest. 75, 1037, 1985.

Andreucci V.: International Yearbook of Nephrology 1989. Kluwer Academic Publishers, Third Ed., Boston, Dordrecht, London 1989.

Brenner B., Stein J.H.: Chronic Renal Failure. Contemporary Issues in Nephrology. Churchill Livingstone, New York, 1981.

Bremmer B., Mann H.: What remains of the “middle molecule” hypothesis today? Contrib. Nephrol., 44, 14, 1985.

Daurgidas J.T., Ing T.S.: Handbook of Dialysis. Little, Brown and Co., Boston, Toronto, 1988.

Debroe M.E., Van de Vyver F.L.: Aluminum: a clinical problem in Nephrology. Clin. Nephrol., 24 (suppl.) S1, 1985.

Heidland A., Koch K. M., Heidbreder E.: Diabetes and the Kidney. Contribution to Nephrology, Karger, Basel, 1989.

Maher J.F.: Replacement of Renal Function by Dialysis. Kluwer Academic Publishers, Third Ed., Boston, Dordrecht, London, 1988.

Massry S.G.: Is parathyroid hormone a uremic toxin? Nephron, 19, 125, 1977.

Piccoli G., Quarello F., Martina G.: Alterazioni cardiocircolatorie nel paziente in dialisi. In: “Trattato italiano di Dialisi”, Wichtig, Editore, Milano, 1990.

 

 

G. Piccoli

Professore Associato Istituto di Nefro-Urologia

Università di Torino

Direttore Divisione di Nefrologia e Dialisi

Ospedale Giovanni Bosco, Torino

 

 

P. Colombo

Istituto di Nefro-Urologia

Ospedale “Giovanni Bosco”, Torino

 

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