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 Ultimo aggiornamento: 23.12.2006

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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

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EPATITI CRONICHE

 

Con il termine “epatiti croniche” sono indicate numerose affezioni di varia estensione, evolutività e gravità, a diversa eziologia, che presentano in comune l'interessamento del fegato da parte di un processo infiammatorio cronico per lo più a partenza dagli spazi portali, e associato a compromissione parenchimale con necro­si epatocellulare. Molte di queste forme hanno una tendenza spontanea all'auto­mantenimento e possono pertanto evol­vere progressivamente verso la cirrosi, ov­vero stabilizzarsi per lunghissimi periodi o anche indefinitivamente. In altre condi­zioni, qualora l'agente eziologico venga rimosso, il danno epatico può invece andare incontro a regressione, magari con una modesta fibrosi residua.

 

CLASSIFICAZIONE

 

Una prima classificazione delle epatiti croniche fu proposta circa trenta anni fa, quando la maggior parte degli agenti eziologici attualmente noti era allora scono­sciuta, cosicché una patogenesi su base immunologica fu prospettata per molte di esse. Negli anni a seguire, la scoperta dei diversi virus epatitici e le nuove cono­scenze sulla patogenesi delle epatiti croni­che hanno portato al progressivo amplia­mento dei criteri classificativi preesistenti, pur mantenendo la grande enfasi attri­buita agli aspetti istologici: vennero così coniati i termini di epatite cronica persi­stente, lobulare e attiva, intese come forme di epatopatia cronica a carattere evolutivo, a eziologia quasi sempre virale, ed il cui utilizzo nella pratica clinica con­sentiva (e consente tuttora) un approccio terapeutico ben codificato.

Secondo la vecchia nomenclatura, nel­l'epatite cronica persistente la flogosi cro­nica interessa gli spazi portali, conser­vando sostanzialmente l’integrità della struttura lobulare, senza fibrosi o necrosi della lamina limitante (ovvero della schiera di epatociti che delimita lo spazio portale stesso), e con una modesta sofferenza parenchimale. Questi due aspetti vennero considerati essenziali per la dia­gnosi differenziale con l'epatite cronica at­tiva, o aggressiva (vedi oltre), non essendo la distinzione tra le due forme sempre age­vole sul piano clinico: infatti, l'assenza o la minor entità della compromissione delle condizioni generali e delle alterazioni bioumorali, in genere limitate all'aumento delle transaminasi, non sempre si correla con l'attività della malattia.

La cosiddetta epatite cronica lobulare, che tra l'altro rappresentava un'entità nosologica non accettata da tutti gli au­tori, risulta del tutto sovrapponibile al­l'epatite cronica persistente per le carat­teristiche cliniche, il quadro bioumorale, l’eziopatogenesi e la prognosi. Da un punto di vista istologico l'epatite cronica lobulare veniva caratterizzata da un infiltrato flogistico localizzato all'interno del lobulo epatico, costituito da elementi cellulari prevalentemente linfocitari, con associati più evidenti fenomeni degene­rativi e necrotici a carico degli epatociti. Analogamente alla cosiddetta epatite cronica persistente, anche in questa forma la lamina limitante è rispettata, come pure l'architettura lobulare, e la fi­brosi è assente.

Infine, l'epatite cronica attiva rappre­senta un'entità nosologica nella quale ben evidenti sono gli aspetti evolutivi, sia sul piano bioumorale sia soprattutto su quello istologico, caratterizzato da un evidente infiltrato flogistico e da una fibrosi più o meno estesa, che interessa gli spazi portali ed invade più o meno estesamente il pa­renchima circostante oltre la lamina limi­tante, a configurare la cosiddetta periphe­ral piecemeal necrosis. Gli epatociti presentano infine fenomeni di necrosi parcellare cui si associano tipici fenomeni regressivi.

Questa suddivisione in tre forme di­stinte ha dato tuttavia luogo a numerose critiche, dovute principalmente al fatto che la distinzione non sempre poteva es­sere basata su criteri diagnostici univoci, mancando di qualunque criterio semi­quantitativo di graduazione e di stadia­zione; inoltre le caratteristiche epidemio­logiche e cliniche sono sotto molti aspetti sovrapponibili, se si eccettua che nell'epa­tite cronica persistente ed in quella lobu­lare i sintomi sono generalmente più sfu­mati o talvolta assenti, e che l'esordio clinico e sintomatologico è di solito antici­pato, interessando soprattutto soggetti ap­partenenti alla terza e quarta decade di vita. In aggiunta, è importante sottoli­neare che l'aspetto istologico di un'epatite cronica attiva in stabilizzazione o in remis­sione (come ad esempio in seguito a trat­tamento interferonico), può essere in pra­tica indistinguibile da una forma persi­stente, e che vi sono forme al limite fra persistente (o lobulare) e attiva (definite come borderline), nelle quali non è possi­bile stabilire con esattezza l'atteggiamento terapeutico da seguire. Infine, per quanto il decorso di un'epatite cronica persistente o lobulare risultasse sostanzialmente beni­gno, almeno nelle fasi iniziali, in una signi­ficativa percentuale di casi (oscillante tra il 10 ed il 20%) è stata poi documentata l'e­voluzione in una forma attiva e successiva­mente anche verso la cirrosi.

Negli anni più recenti è stata pertanto proposta una definizione di epatite cro­nica che prende in considerazione anche aspetti clinici e microbiologici, in associa­zione a tutte le nozioni di tipo istopatolo­gico già acquisite da tempo, e che consi­dera come criterio di scelta iniziale quello eziologico, per le diverse caratteristiche di decorso, di prognosi e di terapia che ogni diversa forma di epatite cronica possiede.

Nel contesto di ogni distinta forma, alle alterazioni istopatologiche, talora pato­gnomoniche, può essere attribuito un punteggio in termini di graduazione (gra­ding) e stadiazione (staging), al fine di ot­tenere una standardizzazione di tipo semi­quantitativo. In tal modo, viene abban­donata la tendenza a distinguere le forme di epatite cronica in persistente, lobulare e attiva, utilizzata in passato, venendo a considerare queste forme come un'unica malattia, a differente severità.

Numerose sono le epatopatie che pos­sono presentarsi con una compromissione prevalente degli spazi portali e che per al­cune caratteristiche istologiche e cliniche somigliano ad un'epatite cronica virale, e che pertanto vanno considerate ed escluse nella diagnosi differenziale. Tra queste, le forme più frequenti sono l'epatite autoim­mune, la cirrosi biliare primitiva e la co­langite sclerosante primaria, dove le le­sioni a carico degli epatociti sono tuttavia secondarie all'estensione della flogosi che origina dai dotti biliari; viceversa, nel morbo di Wilson e nella forma da deficit di (a1‑antitripsina, dovute a patologie de­terminate geneticamente e spesso con evi­denti manifestazioni sistemiche, il coinvol­gimento parenchimale è prevalente, alme­no inizialmente, e solo successivamente coinvolgerà gli spazi portali.

L'epatite cronica a eziologia virale viene pertanto oggi definita come un processo necro‑infiammatorio del fegato a diversa eziologia, che si mantiene per oltre 6 mesi e si caratterizzata istologica­mente per la presenza di un infiltrato flo­gistico degli spazi portali e di sofferenza epatocellulare, con aree di necrosi più o meno estese e localizzate alla periferia del lobulo, ed erosione della lamina limi­tante. Nella stragrande maggioranza dei casi, è inoltre osservabile una chiara tendenza all'evoluzione verso la fibrosi o la cirrosi epatica.

Come già accennato, la più recente clas­sificazione delle diverse forme di epatite cronica segue innanzitutto un criterio eziopatogenetico, e può essere così rap­presentata:

Anche alcuni farmaci, specie se assunti per periodi protratti, sono in grado di cau­sare forme di epatite cronica aventi carat­teristiche cliniche ed istologiche simili alle forme virali od autoimmuni, ma queste forme solo raramente assumono caratteri­stiche evolutive. Inoltre, questi agenti te­rapeutici sono stati a volte ritenuti gli agenti causali di un'epatite cronica au­toimmune, potendo indurre, durante il trattamento, la comparsa di autoanticorpi anti‑nudeo (ANA), o anti‑microsomi del fegato e del rene (LKM1) a basso titolo. Tra i farmaci ritenuti più frequentemente implicati sono da citare l’ossifenisatina, impiegata soprattutto in passato come las­sativo, ed in certi casi l'alotano o la metil­dopa, anche se virtualmente ogni sostanza è in grado di provocare, in soggetti predi­sposti, un processo epatitico cronico, la cui attività tuttavia si riduce progressiva­mente con la sospensione dell'assunzione del farmaco, lasciando solo modesti reli­quati. Una considerazione a parte merita la clorpromazina, che è capace di indurre nel 2 % dei casi una forma epatitica di tipo colestatico, spesso evolvente in cirrosi bi­liare secondaria.

Per epatiti croniche criptogenetiche si intendono tutte quelle forme nelle quali ogni possibile movente patogenetico (in­fettivo, metabolico, autoimmunologico, farmacologico o tossicologico) sia stato ac­curatamente escluso; questi casi, che in certe casistiche raggiungono anche il 20% circa di tutte le epatiti croniche, possono essere almeno in parte dovuti ad infezioni determinate da virus epatotropi non an­cora identificati.

In questa sede verrà riservata particolare attenzione alle epatiti croniche ad eziolo­gia virale ed all'epatite cronica autoim­mune, che oltre a rappresentare le forme di più frequente riscontro, sono anche quelle ormai più compiutamente caratte­rizzate. Verranno in seguito considerate quelle forme che un tempo furono defi­nite, talora in maniera non sempre appro­priata, come epatiti croniche non evolu­tive, e che comprendono l'epatite cronica alcolica, l'epatite reattiva aspecifica, le epa­titi croniche specifiche, nonché le più co­muni epatiti batteriche e parassitarie.

 

 

EPATITI CRONICHE VIRALI

 

Negli ultimi decenni, ben sei diversi vi­rus epatitici sono stati identificati e spesso in gran parte caratterizzati (A, B, C, D, o virus delta, E e G). L'infezione da virus A ed E viene trasmessa per via oro‑fecale e virtualmente non conduce mai alla croni­cizzazione, mentre poco chiari sono an­cora i dati riguardanti le caratteristiche del virus G e le potenzialità evolutive delle forme acute da esso sostenute. D'altra parte, i virus B, delta e C rappresentano invece gli agenti eziologici principali delle forme di epatite cronica ed anche di cir­rosi, e verranno pertanto considerati più estesamente in questa sede.

Resta comunque tuttora valida la di­zione di epatite cronica non A‑E per quelle forme in cui l'eziologia virale è più probabile sulla base delle caratteristiche epidemiologiche (per esempio post‑trasfu­sionalí), cliniche, bioumorali ed istologi­che; in questo gruppo potrebbe ancora es­sere opportuno considerare le forme dovute con alta probabilità al virus G del­l'epatite, anch'esso trasmissibile a soggetti sottoposti a terapia emodialitica o trasfu­sionale; l'HGV rappresenta l'agente ezio­logico identificato nel 6‑14% delle epato­patie ritenute un tempo criptogenetiche, ma aventi caratteristiche cliniche sovrap­ponibili a quelle delle altre forme ad ezio­logia sicuramente virale, nell'attesa che test diagnostici specifici per questo agente ne consentano una più precisa caratteriz­zazione, soprattutto per quanto riguarda la potenzialità di dare origine a forme cro­niche, che resta ancora da definire com­piutamente.

E’ ormai chiaro che nella patogenesi della cronicizzazione delle epatiti virali, il danno epatico rappresenta la risultante dell'attivazione e del mantenimento di una risposta immunitaria citotossica di­retta contro antigeni autologhi o eterolo­ghi (in questo caso virali) esposti sulla membrana degli epatociti. In linea gene­rale, in molti soggetti infettati da virus epatitici l'espressione di antigeni virali sulla membrana dell'epatocita infettato, in associazione con antigeni di istocompati­bilità del complesso HLA, porta al loro ri­conoscimento da parte del sistema im­mune, sia umorale che cellulare (soprat­tutto linfociti T citotossici), la cui attiva­zione avrebbe lo scopo di eliminare defi­nitivamente le cellule infettate e quindi l'infezione virale. Virus epatitici quali l'HBV e FHCV possiedono invece alcune proprietà biologiche che consentono loro, in determinate circostanze ed in soggetti predisposti, di eludere almeno in parte il sistema immunitario impedendo l'eradica­zione completa dell'infezione.

Ad esempio, in corso di infezione da HBV, la risposta immunitaria cellulo‑me­diata viene diretta contro gli epitopi delle proteine del nucleocapside virale, dell'en­velope e della DNA polimerasi, e molto spesso risulta in grado di interrompere e poi di eradicare la replicazione virale limi­tando progressivamente il processo in­fiammatorio intraepatico fino alla guarigione definitiva, come avviene in tutti i casi di epatite acuta. Questi fenomeni si realizzano anche in virtù della capacità dei linfociti T citotossici attivati di sintetizzare numerose citochine (soprattutto IFN‑y e TNF‑(x) capaci di inibire la replicazione del virus senza peraltro danneggiare la cel­lula ospite. Tuttavia, nei casi in cui il si­stema immunitario non sia in grado di eli­minare completamente il virus dagli epa­tociti, il persistere dell'affivazione linfoci­taria potrà causare un danno protratto a carico del fegato.

Le forme sostenute dal virus B dell'epa­tite sono attualmente molto meno fre­quenti che in passato, anche per la pro­gressiva eradicazione dell'endemia in certe aree geografiche, resa possibile dal­l'avvento della vaccinazione. La distribu­zione dell'infezione da HBV varia consi­derevolmente da regione a regione, essen­dovi nel mondo aree geografiche ad ele­vata prevalenza come il Sud Est Asiatico, la Cina ed alcuni paesi africani, dove oltre l'8% della popolazione risulta portatore cronico del virus, in virtù dell'alta inci­denza di trasmissione verticale. D'altra parte, in aree considerate a basso grado di endemicità, quali il Nordamerica, l'Eu­ropa occidentale e l'Australia, la trasmis­sione è prevalentemente di tipo orizzon­tale, e nei giovani adulti. Attualmente, si calcola che negli Stati Uniti oltre un mi­lione di persone siano portatrici croniche del virus, mentre in Italia la prevalenza è di circa 200.000, e la trasmissione dell'in­fezione avviene prevalentemente per con­tagio di tipo sessuale o tramite scambio di siringhe infette; più raramente, la trasmis­sione dell'infezione da HBV avviene in se­guito a procedure medico‑ chirurgiche, emotrasfusioni o emodialisi.

 

L'HBV è in grado di eludere la sorve­glianza immunitaria sia umorale che cellu­lare e quindi di mantenere l'infezione al­l'interno degli epatociti grazie alla sua variabilità genetica, che consente la sele­zione di ceppi mutanti. Infatti, la muta­zione anche di un solo aminoacido della proteina di superficie dell'HBsAg con­sente di sfuggire all'effetto neutralizzante degli anticorpi anti‑HBs diretti contro questo antigene, che sono normalmente in grado di bloccare i siti recettoriali di membrana che consentono al virus di in­fettare nuove cellule. Inoltre, sono state descritte mutazioni a livello di alcuni epi­topi (ma non di tutti) abitualmente rico­nosciuti dai linfociti T citotossici: in que­ste condizioni, l'evasione solo parziale alla risposta immune ne comporta un'attiva­zione praticamente costante, che mantiene cronicamente 9 danno epatico. Infine, in virtù di particolari mutazioni, certi ceppi virali sono in grado di bloccare la sintesi delle proteine che rappresentano il bersa­glio del riconoscimento anticorpale: l'e­sempio più eclatante è la mutazione che si realizza a livello della regione pre‑core dell'HBV con mancata produzione e libe­razione in circolo dell'HBeAg, uno dei principali bersagli dei linfociti T.

Il virus delta dell'epatite (o HDV) è in grado di provocare un processo epatitico solo se l'ospite è infettato anche dal­HBV, che svolge funzioni di helper con­sentendo all'HDV la penetrazione, l'as­semblaggio ed il rilascio in circolo degli elementi virali completi. L'incidenza del­l'infezione da HDV in soggetti HbsAg po­sitivi è attualmente stimata intorno al 2% circa, ma sale al 9% nei tossicodipendenti. Tale infezione può avvenire sia contempo­raneamente a quella da HBV (coinfe­zione), oppure sovrapporsi ad un'infe­zione cronica preesistente (superinfezio­ne), che consentirebbe la diffusione in­traepatica e la cronicizzazione anche del­l'infezione da HDV. La gravità con cui un'infezione da HDV si manifesta di­pende dalle caratteristiche virologiche presenti al momento del contagio.. Infatti, qualora la malattia da HBV sia in fase di elevata replicazione virale, la superinfe­zione rappresenta un'ulteriore spinta evo­lutiva, mentre l'assenza defl'HBV‑DNA, con quindi esclusiva presenza di marcatori di danno HDV‑correlato, comporta un decorso prolungato e paucisintomatico, con evoluzione cirrogena tardiva.

L'HCV è senza dubbio l'agente virale più frequentemente causa di epatite cro­nica: dati recenti indicano che negli Stati Uniti circa 4 milioni di persone sono por­tatrici dell'infezione da HCV, con 150.000 nuovi casi ogni anno, mentre in Italia la prevalenza stimata è di oltre 2 milioni di persone portatrici di anticorpi anti‑HCV. Inoltre, si calcola che circa 12.000 decessi ogni anno siano da impu­tare alle complicanze (cirrosi, epatocarci­noma) di un'epatite cronica da HCV. Dopo l'episodio acuto, che in meno del 25% dei casi è clinicamente ben evi­dente, oltre l'80% dei soggetti mantiene l'infezione, che con elevata frequenza (superiore al 50%) va incontro a croni­cizzazione.

Numerose evidenze sperimentali attual­mente ritengono che in corso di epatite da HCV i meccanismi di cronicizzazione (un tempo imputati al solo effetto citopatico diretto del virus) siano per molti aspetti si­mili a quanto già ricordato a proposito dell'HBV. Sebbene i meccanismi grazie ai quali l'infezione da HCV persiste nono­stante un'appropriata competenza immu­nologica dell'ospite siano stati chiariti solo in parte, è ormai certo che la persistenza del virus e quindi la frequentissima croni­cizzazione siano da imputare all'estrema variabilità del genoma dell'HCV: ciò ne ha comportato la denominazione di “qua­sispecie”, ad indicare simili (seppur etero­genei) e numerosi ceppi virali distinti, ma coesistenti nello stesso individuo, che con­sentono al virus di eludere abbastanza agevolmente la risposta immunitaria del­l'ospite, sia umorale che cellulo‑mediata. All'interno del genoma dell'HCV è stata infatti individuata una regione ipervaria­bile (HVR1) localizzata nella regione E2/NS1 codificante per quelle sequenze aminoacidiche che rappresenterebbero uno dei possibili bersagli della risposta an­ticorpale. L'elevata variabilità di dette se­quenze fa sì che queste siano costante­mente neutralizzate da anticorpi specifici, ma con successiva nuova produzione di varianti diverse, che sfuggono al controllo da parte di anticorpi neutralizzanti. Inol­tre, da studi più recenti appare anche che, con meccanismi analoghi, e dovuti alla presenza di numerose altre regioni iper­variabili localizzate all'interno del ge­noma virale (core, E1, NS3, NS4B, NS5B), il virus sia in grado anche di elu­dere la sorveglianza immunitaria cellulo­mediata, esercitata principalmente da linfociti‑T citotossici.

Infine, PHCV possiede la capacità di re­plicarsi anche in sedi extraepatiche, so­prattutto in cellule del sistema immune (monociti e linfociti B e T): ciò potrebbe alterare in qualche modo la reattività a sti­moli antigenici da parte di questi elementi che, oltre a contribuire al perdurare ed al cronicizzare dell'infezione, potrebbe spie­gare la patogenesi di alcune epatiti croni­che autoimmuni ed anche di malattie a lo­calizzazione extraepatica come la crioglo­bulinemia mista, i linforni non‑Hodgkin B e, secondo certi autori, anche alcune gam­mopatie monoclonali.

In alcuni soggetti con infezione cronica da HBV o da FICV, l'aggressione da parte dei linfociti T contro gli epatociti è rivolta non solo contro antigeni di origine virale, ma anche verso determinanti antigenici autologhi. Questa attivazione autoim­mune sarebbe favorita da una relativa ca­renza di linfociti T suppressor (0KT8+) rispetto a quelli citotossici (0KT4+), che rappresentano i principali effettori della risposta immunitaria.

Altri fattori sono da considerare come concause nella patogenesi della croniciz­zazione, quali alterazioni del fegato preesistenti o compresenti all'infezione (danno da farmaci o da alcol ecc.), che costitui­scono un elemento di danno aggiuntivo.

Da sottolineare infine il fatto che la coinfezione HBV‑HCV è un fenomeno abbastanza raro, mentre molti soggetti, specie tossicodipendenti, possono presen­tare simultaneamente anticorpi anti‑HBc ed anti‑HCV, con tutti i segni clinici, umorali ed istologici di un'epatite cronica da virus C.

Il quadro clinico dell'epatite cronica ad eziologia virale è assai variabile, e soprat­tutto nelle forme da HCV è caratteristica l'alternanza di periodi di relativa quie­scenza con fasi di riacutizzazione, non solo umorale (Fig.01x), ma anche sintoma­tologica: la stragrande maggioranza dei pazienti presenta una malattia paucisinto­matica o addirittura del tutto asintoma­tica: i sintomi, quando presenti, sono del tutto aspecifici e di intensità correlabile al grado di compromissione della funziona­lità epatica; questi comprendono astenia e facile affaticabilità, anoressia, dimagri­mento, vaghi disturbi dispeptici, rara­mente subittero e prurito, talvolta febbre. Come già accennato, in numerosi casi la malattia decorre per lungo tempo (anche 20‑40 anni) in maniera del tutto asintoma­tica e l'ipertransaminasemia in questi casi rappresenta un reperto occasionale, in oc­casione di esami biournorali eseguiti per altre cause. Raramente invece la diagnosi di epatite cronica viene posta durante il follow‑up di una epatite acuta, in quanto in oltre l'80% dei casi l'infezione acuta decorre in maniera anitterica ed asintorna­tica, senza segni clinici evidenti.

 

L'esame obiettivo evidenzia in genere un'epatomegalia, con un certo aumento di consistenza dell'organo, la cui superficie si mantiene peraltro liscia ed il margine smusso. La milza può anch'essa essere au­mentata di dimensioni, ma una splenome­galia ben evidente è in genere l'espressione di forme già avanzate, e spesso progredite fino alla cirrosi. Analogamente, gli altri se­gni di epatopatia cronica rilevabili all'e­same fisico del paziente (spider nevi, eri­tema palmare), sono generalmente assenti.

Come spesso accade per molte forme di epatopatia, i disturbi soggettivi lamentati dal paziente possono essere assai sfumati, per cui essa viene inizialmente sospettata in seguito al riscontro di alterazioni biou­morali in corso di esami eseguiti per altre cause, o più raramente in seguito alla di­mostrazione della persistenza delle altera­zioni a distanza di 6‑12 mesi da un episo­dio di epatite virale acuta. La diagnosi o il sospetto di un'epatopatia cronica sono ba­sati sul corteo sintomatologico soprade­scritto e sul persistente riscontro di un in­nalzamento delle transaminasi, variabile da paziente a paziente, e di durata supe­riore a 6 mesi, che solo nelle forme au­toimmuni o nelle fasi di riacutizzazione delle forme da HCV raggiunge valori ele­vati (anche 10 volte la norma).

E’ assai arduo poter quantificare l'entità del danno epatico esistente sulla base della sola alterazione delle transaminasi, in quanto non esiste una correlazione lineare tra i livelli plasmatici raggiunti da AST e ALT ed il quadro istopatologico; analoga­mente, il pattern delle transaminasi non fornisce particolari indicazioni sulla di­versa eziologia delle varie forme (nell'epa­topatia alcolica può essere di ausilio il cal­colo dell'indice di De Ritis, ovvero del rapporto AST/ALT, che è spesso mag­giore di 2). Nelle forme da HCV, ad esem­pio, in molti pazienti le transaminasi pos­sono essere normali o solo modicamente alterate, pur in presenza di un danno isto­logico evidente.

Gli altri indici di danno epatocellulare (LDH, OCT, etc.), risultano anch'essi lie­vemente alterati. Gli indici di colestasi sono invece per lo più normali o solo mo­dicamente aumentati, e quindi poco atten­dibili ai fini della diagnosi: lay‑GT, infatti, rappresenta un test sensibile, ma poco spe­cifico, di danno epatico, in quanto può es­sere misurata in concentrazioni plasmati­che aumentate anche in corso di danno epatico secondario ad alterazioni del meta­bolismo glucidico e lipidico (steatosi) o per l'azione dell'alcol o di numerosi far­maci (primi fra tutti i barbiturici e gli an­tiepilettici in genere). Analogamente, la fo­sfatasi alcalina può aumentare in modo consistente sia nelle forme virali con com­ponente colestatica (Fig.02x), sia nelle epa­topatie colestatiche propriamente dette, sia in presenza di lesioni espansive, quali tumori, granulomi od ascessi, o per l'inte­ressamento epatico in corso di malattie linfoproliferative o di amiloidosi. Infine, la bilirubinemia è il più delle volte normale o modicamente alterata, con aumento sia della quota libera che di quella coniugata, ed anche la colalemia, sia a digiuno che post‑prandiale, presenta in genere un mo­derato incremento.

Le y‑globuline (prevalententemente le IgG nelle forme virali e le IgA nelle forme alcoliche) aumentano in maniera variabile e poco prevedibile nei diversi pazienti; è comunque caratteristico un aumento mar­cato e precoce in corso di epatite autoím­mune, dove precoce è anche la riduzione degli indici di funzionalità parenchimale (albuminemia, attività protrombinica e pseudocolinesterasi), che invece restano a lungo conservati nelle altre forme.

Con il progredire di un'epatite cronica verso la cirrosi, alle tipiche alterazioni istopatologiche fa riscontro un peggiora­mento del quadro bioumorale, soprattutto degli indici di funzionalità parenchimale protidosintetica, ed un decremento del numero di piastrine.

Infine, l'ecografia dell'addome supe­riore conferma la presenza di epato‑ e splenomegalia, senza che in queste fasi siano in genere evidenti altre alterazioni di rilievo a carico di questi organi.

 

 

Diagnosi

 

Come già accennato in precedenza, in molti pazienti affetti da epatite cronica non è possibile risalire anamnesticamente ad un episodio epatitico acuto o al mo­mento dell'avvenuto contagio: spesso il ri­scontro di un aumento dei valori sierici delle transaminasi risulta pertanto un re­perto occasionale in corso di esami di con­trollo, magari eseguiti per altre cause o per la presenza di sintomi generali e aspecifici quali astenia, facile affaticabilità, dispe­psia e dimagrimento. Per una diagnosi corretta di epatite cronica, e prima di in­traprendere ulteriori accertamenti, è ne­cessario che l'ipertransaminasemia sia per­sistente da almeno sei mesi, o addirittura da un anno. Sarà poi opportuno escludere tutte le potenziali cause di epatopatia su base tossica (farmaci, agenti chimici ecc.) o metabolica (dislípidemia, alterazioni del metabolismo del ferro o del rame ecc.), e naturalmente eseguire un'ampia analisi vi­rologica (vedi oltre) ed immunologica.

Successivamente, soltanto con un esame istologico tramite biopsia epatica sarà pos­sibile stabilire l'effettivo grado di compro­missione epatica: già con la colorazione standard all'ematossilina‑eosina è possi­bile un'analisi soddisfacente, che potrà es­sere associata a colorazioni specifiche per determinare l'entità della fibrosi o l'even­tuale accumulo di ferro. Il quadro istolo­gico tipico dell'epatite cronica è caratte­rizzato da un infiltrato flogistico costituito da linfociti, monociti, cellule istioidi e pla­smacellule, che invade gli spazi portali, in­teressando più o meno estesamente il pa­renchima circostante oltre la lamina limitante, che appare interrotta in più punti (peripheral piecemeal necrosis). Gli spazi portali appaiono notevolmente in­granditi, con una fibrosi più o meno estesa e neoformazione duttulare. In regione in­tralobulare, gli epatociti comunemente presentano una necrosi parcellare cui si associano tipici fenomeni regressivi quali palloriamento nucleare, rigonfiamento torbido e frequentemente steatosi; inoltre, le cellule di Kupffer sono aumentate di numero e di dimensioni e sporgono all'in­terno del lume dei sinusoidi (Fig.03x).

Soprattutto nelle fasi di riacutizzazione delle forme da virus B dell'epatite, sono spesso ben evidenti i tipici corpi acidofili, espressione di addensamenti di tipo eosi­nofilo di derivazione epatocitaria, nonché le caratteristiche cellule a vetro smeri­gliato (ground glass cells), il cui citoplasma contiene inclusioni eosinofile che spo­stano il nucleo verso la periferia: queste cellule sono ben evidenti in corso di epa­topatia cronica HBsAg positiva, ma sono riscontrabili frequentemente anche in portatori sani (fig.04x, fig.05x). Con specifiche colorazioni, quali ad esempio l'impregna­zione argentica, potranno essere messe in evidenza le alterazioni della trama retico­lare, che può apparire frammentata in più punti all'interno del lobulo, mentre è ispessita ed addensata in corrispondenza degli spazi portali (Fig.06x).

 

Con il progredire del processo flogi­stico, saranno facilmente riconoscibili i setti connettivali, riccamente infiltrati da elementi infiammatori e talvolta capillariz­zati (setti attivi). Dagli spazi portali, questi setti si estendono verso il centro del lo­bulo ed anche tra un lobulo e l'altro, raggiungendo gli spazi portali adiacenti (setti porto‑portali), e le vene centrolobulari (setti porto‑centrali, cui è attribuita una grande importanza nella patogenesi dell'e­voluzione cirrogena). Infine, con la com­parsa dei noduli di rigenerazione, il qua­dro istologico assumerà le caratteristiche tipiche di una cirrosi macro‑ o micro‑no­dulare.

Secondo la classificazione istopatolo­gica proposta da Knodell et al. (1981), la severità di un'epatite cronica viene deter­minata con metodo semiquantitativo di graduazione di alcuni parametri fonda­mentali (Tab.02x), il che permette di otte­nere un determinato punteggio numerico.

E’ importante a questo punto sottoli­neare che, se da una parte questo sistema a punteggio costituisce un importante mezzo di ausilio nella pratica clinica, an­che per l'indubbio vantaggio di poter va­lutare agevolmente gli effetti di eventuali terapie, dall'altra non deve sostituirsi in toto alla descrizione per esteso dei quadri esaminati (Tab.03x). Gli innegabili vantaggi derivanti dall'utilizzo dell'indice di Kno­dell sono l'estrema diffusione e quindi l'ampio utilizzo nella pratica clinica e nella valutazione anche comparativa di trials te­rapeutici, ma soprattutto l'ampio range di punteggio otteníbile, che consente dia­gnosi estremamente fini. Tuttavia, i primi tre parametri considerati rappresentano una graduazione della malattia, e pertanto sono suscettibili di modificazioni anche in senso regressivo (verso un miglioramento) delle alterazioni osservate, mentre la quantificazione della fibrosi rappresenta un criterio di stadiazione, rappresentando un fenomeno quasi sempre progressivo ed irreversibile. Per questi motivi, molti pre­feriscono separare questi due aspetti, for­nendo i loro referti istologici di punteggi separati.

Nella revisione proposta da Scheuer nel 1991, è stato pertanto suggerito l'impiego di un criterio di stadiazione sulla base dell'entità della fibrosi, secondo quanto de­scritto nella Tab.04x.

Per la caratterizzazione eziologica, è ne­cessario un completo screening virologico, con la ricerca dei marcatori di infezione da HBV in atto (HBsAg, FIBeAg ed HBV­DNA nel siero, HBcAg nel tessuto epa­tico), HCV (anticorpi anti‑HCV con me­todica ELISA o con immunoblotting e HCV‑RNA tramite PCR) ed HDV (anti­corpi anti‑HDV). In seguito andrà valu­tata l'eventuale presenza di autoanticorpi circolanti (inizialmente ANA, ASMA, anti‑LKM ed AMA), ed escluse le altre cause di epatopatia cronica (forme causate da farmaci, emocromatosi, morbo di Wil­son, deficit di (al‑antitripsina).

Qualora sia già nota un'eziología virale dell'epatopatia, è comunque opportuna la periodica rivalutazione del pattern virolo­gico del paziente, specie in presenza di un improvviso e altrimenti inspiegabile peg­gioramento clinico e bioumorale. Inoltre, dato che l'HDV può determinare l'inibi­zione della sintesi e del rilascio in circolo dell'HBsAg, è allora consigliabile eseguire la ricerca dei marcatori FIDV anche in co­loro che presentino un'isolata positività degli anticorpi anti‑HBc.

Nelle forme sostenute dall'HCV, che sono quelle di gran lunga più frequenti, un fondamentale indice diagnostico è rappresentato dalla determinazione, quantita­tiva e qualitativa, dell'HCV‑RNA tramite PCR Il test dovrà essere eseguito in tutti i pazienti anti‑HCV positivi, anche se con transaminasi normali (vedi oltre), al fine di un monitoraggio continuo. Inoltre, la ri­cerca del genoma virale può rappresentare un utile mezzo diagnostico qualora gli an­ticorpi specifici anti‑HCV siano assenti, quali ad esempio in pazienti immunode­pressí o nei casi di recentissima identifica­zione. La ricerca dell'HCV‑RNA è invece superflua in presenza di transaminasi ele­vate e positività anticorpale, che corri­sponde quasi costantemente ad uno stato, viremico, nei casi in cui non sia necessario quantificare l'entità della replicazione vi­rale o caratterizzare il genotipo. Nei pa­zienti anti‑HCV positivi ma con transamí­nasi normali la determinazione dell'HCV­-RNA è invece in ogni caso utile, in quanto un test negativo sarà indice di un'infe­zione pregressa, mentre un risultato posi­tivo indica un'infezione (ed un'infettività) in corso nonostante la normalità dei test biochimici, e richiede quindi una più at­tenta vigilanza.

Come già accennato nella parte intro­duttiva, la diagnosi differenziale si pone nei confronti della cirrosi, nonché delle al­tre forme di epatopatia cronica (alcolica, da farmaci, da deficit di oci‑anfitripsina, emocromatosi, morbo di Wilson, cirrosi biliare primitiva e colangite sclerosante primaria). L quindi opportuna la valuta­zione di parametri specifici come il dosag­gio dell'ecl‑antitripsina, della ferritina, della ceruloplasmina, della cupremia e della cupruria, ed un'accurata anamnesi, volta a stabilire l'abuso alcolico o l'assun­zione di farmaci potenzialmente epatole­sivi. In molti casi, peraltro, è solo l'esame bioptico a consentire la diagnosi defini­tiva, anche perché permette la determina­zione quantitativa del contenuto di ferro e di rame intracpatico. t importante sottoli­neare che spesso la determinazione della reale attività di malattia sulla base di un unico esame istologico può non essere suf­ficiente, per cui in alcuni casi è necessario un monitoraggio prolungato e integrato da dati clinici e laboratoristici ripetuti nel tempo al fine di stabilire se la malattia tende o meno ad un progressivo aggrava­mento. Questo approccio metodologico è particolarmente indicato per le forme so­stenute dal virus C, dove si può avere una sia pur lenta evoluzione in cirrosi nono­stante la benignità del quadro clinico, bioumorale ed anche istologico.

La cirrosi conclamata è in genere clini­camente ben distinguibile dalle altre forme di epatite cronica, qualora siano già evidenti i segni di compromissione paren­chimale, con una riduzione dell'attività protidosintetica e catabolica (ipoalbumi­nemia, riduzione dell'attività protrombi­nica e del numero delle piastrine, aumento della bilirubina, delle g‑globuline e del­l'ammoniemia), associati ad una più mar­cata epato‑splenomegalía. Inoltre, gli esami strumentali (ecografia ed esofagoga­stroduodenoscopia) dimostreranno i segni diretti ed indiretti di ipertensione portale (aumento del calibro della vena porta, comparsa di ascite e di varici esofagogastriche). Solo nei casi iniziali, quando cioè la cirrosi non ha ancora determinato i se­gni di un'ipertensione portale, può essere di ausilio l'esecuzione della biopsia epa­tica.

 

 

Decorso e prognosi

 

Nonostante l'alternarsi di episodi di ria­cutizzazione con periodi di relativo benes­sere, in corso di epatite cronica si osserva raramente la completa e persistente nor­malizzazione degli esami bioumorali ed in particolare delle transaminasi. Raramente (2‑3% dei casi), la riacutizzazione può es­sere estremamente intensa, fino a determi­nare una necrosi epatica massíva o sub­massiva, con conseguente insufficienza epatica progressiva a esito rapidamente in­fausto con il quadro tipico della cosid­detta atrofia giafio‑acuta. Secondo la no­stra esperienza, nelle forme di epatite cronica da HCV o da HBV la probabilità cumulativa di sviluppare una cirrosi isto­logicamente evidente è inizialmente abba­stanza bassa, e pari a circa il 7% dopo 5 anni dalla diagnosi istologica di epatite cronica, ma tale percentuale tende ad au­mentare progressivamente con il prosie­guo della malattia, raggiungendo percen­tuali elevate di incidenza dopo 10 e 15 anni (57% e 87%, rispettivamente), e spesso in assenza di una qualsiasi sintoma­tologia evidente (Fig.07x).

 

L'importanza di questo dato risiede nel fatto che nella stragrande maggioranza dei casi l'evoluzione di una epatite cronica in cirrosi istologicamente dimostrabile è un fenomeno praticamente costante dopo 15 anni dalla diagnosi istologica, e spesso an­che indipendentemente dal trattamento effettuato. Inoltre, tale progressione non appare influenzata dalla diversa eziologia virale della malattia (HCV o HBV) e dal sesso dei pazienti.

Alla comparsa di una cirrosi evidente solo all'esame epato‑bioptico non si ac­compagnano peraltro i segni di un peggio­ramento della sintomatologia clinica, che invece si verificano in genere dopo alcuni anni (in media 5‑10), quando cioè si mani­festeranno i caratteri clinici dell'iperten­sione portale, della ritenzione idrosodica e dell'insufficienza parenchimale.

Nei pazienti affetti da epatite cronica da HBV (che presentano quindi una po­sitività per l'HBsAg, che rappresenta il marcatore più importante ai fini diagno­stici), la prognosi è peggiore in presenza dell'HbeAg e dell'HBV‑DNA, laddove la sieroconversione ad anti‑HBe, pur es­sendo frequentemente anticipata da una riacutizzazione della malattia, si associa ad una evoluzione più lenta e quindi più favorevole; d'altra parte, nei casi in cui la mancanza dell'HBeAg è dovuta all'emer­gere di una variante “mutata” del virus, incapace cioè di produrre tale antige­ne, l'evoluzione è più rapida del previ­sto. Infine, le forme HBV correlate con superinfezione da HDV presentano un decorso più rapido, talvolta fulminante. Solo raramente è osservabile una remis­sione clinica completa, cui corrisponde istologicamente un quadro di fibrosi epa­tica: è invece più frequente la stabilizza­zione del processo flogistico, associata ad un miglioramento o alla scomparsa della sintomatologia clinica ed alla normalizza­zione più o meno completa e duratura delle alterazioni bioumorali; istologica­mente si apprezza la riduzione dell'infil­trato flogistico, che rimane confinato nello spazio portale. Seppure queste fasi persi­stano in genere per lunghi periodi, è co­munque possibile la ripresa dell'attività del processo, per cui è comunque necessa­rio il monitoraggio nel tempo anche di questi pazienti.

 

 

Terapia

 

Indipendentemente dall'attività di ma­lattia, è opportuno evitare sforzi fisici in­tensi ed osservare un relativo riposo so­prattutto nelle fasi di riacutizzazione; sarà comunque importante astenersi dall'assu­mere bevande alcoliche e farmaci potenzialmente epatotossici, mentre la terapia con interferone (vedi oltre) è giustificata solo nei casi in cui le caratteristiche clini­che ed istologiche facciano supporre una tendenza evolutiva della malattia. L'atteg­giamento più corretto da seguire è quindi l'attento monitoraggio nel tempo dei para­metri clinici e laboratoristici di funziona­lità epatica, per stabilire tempestivamente se e quando tali forme mostrano una ten­denza alla progressione. In presenza di al­terazioni bioumorali persistenti, del re­perto di un'attività replicativa virale e di chiari segni istologici di attività di malat­tia, occorre invece considerare immediata­mente una terapia specifica, eziologica, al fine di prevenire o ritardare quanto più possibile l'evoluzione in cirrosi.

Il trattamento di scelta delle forme di epatite virale cronica si basa da tempo sulla somministrazione di interferone. Gli interferoni (IFN) sono polipeptidi pro­dotti da cellule quali linfociti e fibroblasti, e dotati di numerose proprietà antivirali ed immunomodulanti (quali l'inibizione della traslazione dell'RNA virale e la sti­molazione dell'espressione di molecole del complesso VILA da parte delle cellule limitrofe). Gli interferoni attualmente noti sono l'alfa‑2a ed il 2b, prodotti prevalen­temente dai linfociti, il beta, prodotto dai fibroblasti, ed il gamma, secreto da nume­rosi tipi cellulari, ma solo il tipo alfa (ri­combinante o linfoblastoide), ed in misura minore il beta, si sono dimostrati efficaci.

E’ essenziale che ogni trattamento, indi­pendentemente dall'eziologia del processo epatitico cronico, sia proceduto da una stadiazione accurata, sia da un punto di vista ematologico che istologico, al fine di escludere la presenza di patologíe conco­mitanti e di stabilire l'entità della flogosi, della necrosi e della fibrosi e di accertare l'eventuale presenza di rigenerazione no­dulare, che di per sé limita molto la possi­bilità di una risposta alla terapia con inter­ferone. Nella Tabella 5 sono indicati i parametri clinici identificati come predit­tívi di risposta positiva e protratta a se­guito di un trattamento con interferone alfa.

Periodici controlli sono necessari anche durante il trattamento: le transaminasi non correlano con l'entità dell'epatopatia, ma rappresentano comunque un impor­tante indicatore nel monitoraggio della ri­sposta all'IFN nel tempo, oltre ad essere un test poco costoso ed altamente riproducibile. Ad intervalli meno ravvicinati sarà opportuna anche la determinazione dell'HBV-DNA e dell'HCV-RNA, che rappresentano un indice di replicazione virale e la cui scomparsa nel siero è da considerare pertanto l'obiettivo primario della terapia.

 

Epatite cronica attiva HBV correlata: il trattamento di scelta per le forme HBeAg positive prevede la somministrazione di IFN‑(a ricombinante alla dose di 5­10.000.000 di unità tre volte la settimana, per 4‑6 mesi. Questo tipo di trattamento si è dimostrato in grado di indurre la norma­lizzazione delle transaminasi (risposta bio­chimica), di arrestare la replica virale (ri­sposta virologica), con scomparsa dell'HBeAg e dell'HBV-DNA e comparsa degli anticorpi anti‑HBe, nel 50% circa dei casi e di indurre la negativizzazione dell'HBsAg e la sieroconversione ad anti­HBs nel 20% (eradicazione completa del­l'infezione). In questi casi, la percentuale di recidive durante il follow‑up è di circa il 10%. In studi prospettici, è stato inoltre osservato un significativo aumento della sopravvivenza ed una riduzione dell'inci­denza di complicanze dovute alla cirrosi in quei pazienti in cui, ottenuta la siero­conversione ad anti‑Hbe, il trattamento è stato protratto a lungo (fino a 50 mesi).

Nelle forme sostenute da varianti mu­tate dell'HBV, HBeAg difettive (ovvero anti-HBe ed HBV‑DNA positive), il do­saggio del farmaco deve essere maggiore, pari a 10.000.000 unità tre volte la setti­mana, per almeno 12 mesi. Con questo schema terapeutico è possibile ottenere la normalizzazione delle transaminasi e so­prattutto la negativizzazione dell'HBV­DNA in circa il 60‑80% dei casi, ma la percentuale di recidive entro il primo anno dalla sospensione è estremamente elevata, raggiungendo l'80%. Un analogo trattamento viene proposto anche per le forme HDV correlate, ma anche in questo caso i risultati non sono esaltanti e la per­centuale di recidive è elevata. Sono attual­mente in corso numerosi studi volti a veri­ficare l'efficacia di terapie con interferone associato a farmaci ad attività antivirale quali la timosina, che in uno studio rando­mizzato si è dimostrata più tollerabile ed altrettanto efficace rispetto all'IFN‑cc, an­che in pazienti antiHBe ed HBV‑DNA positivi, e la lamivudina, già da tempo im­piegata nella profilassi della reinfezione post‑trapianto, e che si è dimostrata effi­cace, anche in monoterapia (in certi studi più dell'IFN) in termini di risposta umo­rale, virologica (negativizzazione del­l'HBV-DNA) ed istologica, anche se le re­cidive sono risultate assai frequenti alla sospensione del trattamento.

 

 

Epatite cronica attiva HCV correlata: è ancora poco noto l'esatto meccanismo d'azione dell'IFN nei confronti dell'HCV e degli epatociti da esso infettati, anche se sembra ormai certo che l'attività terapeu­tica sia basata sull'inibizione dei processi di replicazione virale. Nei numerosissimi trials clinici condotti fino ad oggi è stato dimostrato che terapie basate sulla sommi­nistrazione di 3 milioni di unità di IFN‑(x (2a o 2b) tre volte la settimana per 6 mesi consentono di ottenere la normalizzazione delle transaminasi nel 50% circa dei casi, mentre una risposta protratta nel tempo, al termine della cura e durante il follow­up, si osserva in meno del 20% circa dei pazienti. D'altra parte, è possibile ottenere una negativizzazione dell'HCV-RNA nel 35% circa dei casi al termine del tratta­mento, e nel 20% nel corso del follow‑up. Le percentuali di risposta positiva e pro­lungata aumentano fino al 30% qualora il trattamento sia condotto per 12 mesi, come spesso è necessario nelle forme so­stenute dal genotipo i dell'HCV, o quando si impieghino dosi maggiori di in­terferone (5 ‑ 6 milioni di unità tre volte la settimana). Nei casi responsivi alla terapia con IFN, al miglioramento biournorale e alla scomparsa dei marcatori di replica­zione virale si accompagna anche un mi­glioramento sul piano istologico, eviden­ziato da una riduzione della flogosi e della necrosi epatocitaria. Un nuovo tipo di in­terferone, ottenuto con tecniche di bioin­gegneria dall'analisi delle sequenze ami­noacidiche degli interferoni naturali e denominato interferone “alfacon‑1”, è stato di recente utilizzato in trial clinici: questa molecola possiede un'ornologia pari all'89% con HFN alfa ed il 30% con il beta, ed in vitro è dotato di un'attività biologica molto più elevata, presumibil­mente per una maggiore affinità con i re­cettori di membrana cellulare. Nel tratta­mento dell'epatite cronica HCV-correlata, l'IFN alfacon- i (alla dose di 9 pg 3 volte la settimana) si è dimostrato di efficacia e tollerabilità sovrapponibile all'1FN-(x 2b in termini di risposta umorale, e certa­mente più potente in termini di risposta virologica nei soggetti con genotipo 1 ed alta viremia iniziale. Con la somministra­zione di IFN alfacon‑1 a pazienti con reci­diva di malattia o con mancata risposta a trattamenti precedenti è stato infine possi­bile ottenere una sostanziale riduzione della viremia (58% e 13%, rispettiva­mente); sono in corso di esecuzione alcuni trials clinici condotti su più ampie casisti­che al fine di valutare la reale efficaci a di questo nuovo interferone rispetto a quelli attualmente impiegati.

Come già accennato, una stadiazione (sia istologica che bicumorale) della ma­lattia è necessaria in tutti i pazienti prima di intraprendere un trattamento interfero­nico, anche al fine di ricercare quei para­metri che si sono rivelati predittivi di una risposta positiva (Tab.05x). Indispensabile è anche un controllo continuo e costante dei parametri bíoumorali durante la tera­pia, sia per evidenziare eventuali effetti collaterali (vedi oltre), sia perché una mancata risposta biochimica e virologica dopo 3 mesi di trattamento rappresentano un indice prognostico altamente negativo sul risultato finale. La biopsia epatica co­stituisce una tappa fondamentale prima di intraprendere una terapia con interferone anche dal punto di vista prognostico: in­fatti, un basso grado di flogosi e la scarsa fibrosi, associati all'assenza ístologica di cirrosi, rappresentano anch'essi un crite­rio predittivo di risposta positiva.

Per quanto le percentuali di risposta po­sitiva siano abbastanza basse, EFN non è controindicato in presenza di cirrosi ístologicamente evidente: qualora invece l'e­patopatia sia evoluta ad uno stadio tale da presentare un'avanzata insufficienza parenchirnale, associata ad ascite ed encefalopatia, allora la terapia interferonica è da evitare del tutto, in quanto potrebbe peg­giorare il decorso della malattia.

Numerosi effetti collaterali, più o meno gravi, possono essere osservati durante un trattamento interferonico . Alcuni di essi sono transitori (sintomatologia si­mil-influenzale caratterizzata da febbre, artralgie e cefalea), e spesso si attenuano nel prosieguo della terapia, essendo inol­tre ben controllabili con l'assunzione di paracetamolo. Più raramente (meno del 2% dei casi) si possono osservare disturbi psichici (depressione, talvolta grave, con tendenze suicide) o neurologici (epilessia), patologie autoimmuni (diabete e, tardiva­mente, tiroiditi), tra cui anche un caso di cirrosi biliare primitiva insorta in corso di terapia per un'epatite cronica HCV‑corre­lata.

Dall'analisi dei risultati ottenuti in trial clinici condotti associando la ribavirina (5-6 compresse da 200 mg/die per os) al­l'IFN 2b (3 MU 3 volte la settimana) è emerso che tale associazione consente di ottenere percentuali sensibilmente più elevate, e pari al 46% circa di risposta vi­rologica protratta nel tempo. Questi re­centi risultati aprono nuove interessanti prospettive nell'ambito della terapia del­l'epatite cronica HCV correlata, specie in quei sottogruppi di pazienti inizialmente non responders o con infezione sostenuta dai genotipi la e 1b dell'HCV, notoria­mente meno sensibili al solo interferone.

La ribavirina sembra essere un farmaco abbastanza maneggevole e con pochi ef­fetti collaterali, rappresentati essenzial­mente da un'anemia emolitica reversibile, che comunque richiede di rado una so­spensione, ma più spesso una diminuzione del dosaggio. Altri effetti ben noti di que­sto composto sono quelli teratogeni. L'u­nico altro inconveniente può essere rap­presentato dall'intolleranza gastrica all'alto numero di compresse giornaliere, elemento che può ovviamente richiedere una somministrazione frazionata nell'arco della giornata.

 

 

EPATITE CRONICA AUTOIMMUNE

 

La presenza o la comparsa di autoanticorpi, a basso titolo, è un evento abba­stanza frequente in corso di infezione cro­nica da HCV, e più raramente da HBV (ANA a basso titolo) e HDV (LKM3 nel 15 % dei casi): un tale fenomeno è imputa­bile alla stimolazione sui linfociti B da parte del virus, HCV in particolare, in virtù delle sue proprietà linfotrope, e ta­lora anche agli effetti della terapia interferonica.

L'epatite cronica autoimmune, o lupoide, rappresenta invece una sindrome clinica del tutto indipendente sul piano nosologico, che viene definita come una “malattia infiammatoria cronica del fegato ad andamento progressivo, caratterizzata istologicamente da un'epatite periportale, con necrosi della lamina limitante, e dalla presenza in circolo di anticorpi organo‑ e non organo‑specifici”.

In genere si può affermare che tutte le forme auto-immuni colpiscono più fre­quentemente soggetti di età giovanile e di sesso femminile, e le regioni del Nordeu­ropa, dove la prevalenza è assai maggiore rispetto ai paesi dell'area mediterranea. Tra le principali caratteristiche cliniche sono da ricordare le numerose alterazioni dell'immunità umorale e cellulare, quali un aumento della VES e delle g-globuline (con prevalente quota IgG), la riduzione dei fattori del complemento, la positività del RA‑test, ma soprattutto la presenza di autoanticorpi circolanti, ad alto titolo (al­meno superiore ad 1:80), rappresentati principalmente, ma non esclusivamente, da anticorpi anti‑nucleo (ANA), anti‑mu­scolo liscio (ASMA), rivolti in particolare verso l'actina F, anti-microsomi del fegato e del rene (LKM di tipo 1), anti‑citopla­sma (LQ ed anti-antigene epatico solubile (SLA). Nei casi incerti, un altro criterio utilizzato per la diagnosi di epatite cronica autoimmune è anche la favorevole rispo­sta alla terapia corticosteroidea ed immu­nosoppressiva. L'epatite autoimmune può infine associarsi con altre patologie su base autoimmune, tra le quali le più co­muni sono la tiroidite di Hashimoto, l'a­sma bronchiale, l'artrite reumatoide, la sindrome di Sjógren e l'anemia emolitica autoimmune.

 

L'eziologia dell'epatite cronica autoimmune resta ancora sconosciuta: la ben do­cumentata associazione con altre patolo­gíe autoimmuni e con gli antigení di istocompatibilità HLA‑A1, B8, DR3 e DR4 indica l'esistenza di una predisposi­zíone genetica. In certi casi la patogenesi del danno epatico sembra attribuibile ad un'aggressione immunomediata verso gli epatociti, innescata da farmaci (metildopa, nitrofurantoina ecc.) o da ipotetici agenti virali (paramixovirus, citomegalovirus) e non sufficientemente modulata o inibita dai linfociti T suppressor: infatti, in corso di epatite cronica autoímmune può essere evidenziabile un'alterata risposta ai test cutanei di stimolo, una riduzione dei linfociti T totali circolanti, ed una ridotta responsività agli stimoli in vitro da parte dei linfociti CD8+. Ciò può quindi favo­rire l'instaurarsi di una citotossicità cellu­lare anticorpo‑dipendente diretta contro antigeni autologhi da parte delle altre po­polazioni linfocitarie.

La classificazione dell'epatite autoim­mune è stata di recente riformulata al fine di discriminare con esattezza le forme vi­rali (generalmente HCV correlate) con as­sociata una componente immunologica anche spiccata, da quelle autoimmuni pro­priamente dette. Sulla base del diverso pattern autoanticorpale, l'epatite cronica autoimmune viene distinta in più sotto­tipi, come riportato nella tabella 7.

L'epatite cronica autoimmune tipo III, caratterizzata dalla presenza isolata di an­ticorpi anti-SLA, è stata descritta nel 1987, ma la sua autonomia nosologica non è ancora accettata da tutti gli autori. Rara in Italia, anche questa forma colpisce ge­neralmente le donne in età fertile. 11 tipo IV, recentemente proposto ed ancora poco caratterizzato, non presenta marca­tori autoanticorpali definiti, ma viene con­siderato tra le forme autoimmuni per l'as­senza di altri fattori eziologici docu­mentabili e soprattutto per la positiva ri­sposta alla terapia steroidea e all'immunosoppressione.

Negli ultimi anni, dalla revisione di nu­merose casistiche di pazienti un tempo ri­tenuti affetti da epatite cronica autoim­mune, è emerso che molti di coloro che risultavano portatori di anticorpi anti­LKM, e/o anti-LC erano di fatto positivi anche per gli anticorpi anti-HCV e per l'HCV-RNA sierico. Analogamente, quasi il 50% di coloro che erano ritenuti affetti da epatite cronica di tipo 1 sulla base della positività per gli autoanticorpi ANA e/o SMA sono poi risultati positivi per l'HCV. Tali dati rendono sul piano clinico estre­mamente ardua la decisione se sottoporre a terapia steroidea oppure interferonica questo tipo di pazienti. Pertanto, l'Inter­national Autoimmune Hepatitis Group ha proposto nel 1993 un sistema che consi­dera cumulativamente numerosi parame­tri clinici, istologici ed ernatologici per ogni singolo paziente (Tab.08x), il che con­sente con discreta approssimazione di di­stinguere le forme di epatite cronica virale con associata componente immunologica dalle forme autoimmuni propriamente dette. Tuttavia, esistendo casi di epatite cronica autoimmune certa o altamente probabile, pur in presenza di sicuri marca­tori virali, allora, è stata introdotta la defi­nizione di “epatite cronica non classifica­bile”.

Tipo I. Prevale nel sesso femminile, con insorgenza in età giovanile. Gli autoanti­corpi caratteristici sono gli ANA e gli ASMA anti‑actina F, che in certi casi pos­sono essere l'unico marcatore anticorpale della malattia. L'ipergammaglobulinernia è generalmente policlonale e di notevole entità (superiore al 30%), e la risposta alla terapia corticosteroidea è in genere soddi­sfacente, anche a lungo termine. Nel 30% dei casi insorge acutamente ed è rapida­mente evolutiva, con ittero intenso, elevata ipertransammasemia e progressiva insufficienza parenchimale. Negli altri casi il decorso è invece subdolo, con astenia, anoressia, febbricola ed amenorrea. Me­no frequenti sono le poliartralgie, le poli­mialgie e la diarrea. E tipo 1 risulta infi­ne meno frequentemente associato con al­tre patologie autoimmuni extraepatiche (17% dei casi), ed è 6 volte meno fre­quente rispetto al tipo Il. Nell'ambito dell'epatite autoimmune di tipo I, un'ulte­riore distinzione classificativa è basata sul dato immunogenetico: infatti, nelle forme con aplotipo FILA B8 la malattia insorge più precocemente ma risponde ottima­mente alla terapia steroidea, analoga­mente a quelle con HLA DR4, dove i li­velli plasmatici di ANA sono sensibil­mente più elevati; d'altra parte, nelle forme con HLA DR3 la prognosi è decisa­mente peggiore.

Tipo II. Questa forma esordisce in età pediatrica (2 ‑ 10 anni) nel 50% dei casi, molto spesso in modo acuto e rapida­mente progressivo verso la cirrosi, e ha una prognosi peggiore. Si associa spesso con patologie extraepatiche quali il dia­bete di tipo I, alcune tiroiditi, l'anemia emolitica autoimmune e la porpora trombocitopenica idiopatica, la vitiligine e l'alopecia. Inoltre, nel 20% dei pazienti è presente una sindrome poliendocrina autoimmune tipo I. Tipici sono gli autoanti­corpi anti-LKMl, a titolo superiore a 1:160, mentre assai meno frequenti sono gli anticorpi anti‑LC. Come già ricordato, è estremamente frequente l'associazione tra epatite cronica HCV correlata e positi­vità per gli anticorpi anti-LKMl: per que­sto motivo, l'epatite autoimmune di tipo Il viene ulteriormente suddivisa in due sottogruppi, come rappresentato nella ta­bella 9, dove il tipo Il b può essere consi­derato come una forma di epatite cronica virale con spiccata componente immunologica.

Da ricordare anche che sono stati de­scritti casi con caratteristiche intermedie tra l'epatite cronica autoimmune ed epatopatie croniche colestatiche quali la cir­rosi biliare primitiva e, meno frequente­mente, la colangite sclerosante primaria: alcune di esse rappresentano probabil­mente un'epatite autoimmune AMA posi­tiva, altre invece sarebbero cirrosi biliari primitive con atipico pattern anticorpale (e negatività per i tipici anticorpi antimitocondriali diretti contro il complesso mitocondriale della piruvico-deidrogenasi). Anche in questo caso la diagnosi definitiva può essere posta solo sulla base dell'evolu­zione istologica (con l'eventuale comparsa di alterazioni a carico dei dotti biliari), Ov­vero della risposta terapeutica a steroidi ed immunosoppressori.

In generale, l'epatite autoimmune tipo II è caratterizzata da un esordio clinico che può essere in molti casi del tutto in­distinguibile da una forma acuta virale; come già osservato, altre volte l'esordio è più subdolo, con febbricola, subittero, astenia intensa ed amenorrea. Più rara­mente la malattia è di riscontro occasio­nale, presentandosi con un'alterazione dei parametri ematologici di funzionalità epatica indagati per altre cause. Infine, in una ridotta percentuale di pazienti, la malattia esordisce già con i segni della cirrosi scompensata. Il decorso è assai va­riabile, essendo spesso caratterizzato da episodi di recrudescenza alternati a pe­riodi di relativo benessere. Generalmente la prognosi è peggiore nelle forme ad in­sorgenza acuta e comunque in tutti i casi non trattati (mortalità del 30‑40% a sei mesi dalla diagnosi). Qualora all'esame istologico manchino i segni di rigenera­zione nodulare e la terapia venga pronta­mente instaurata, la prognosi è superiore al 90% a 5 anni, mentre scende al 50% nei casi con cirrosi istologicamente già evidente. La compromissíone delle con­dizioni generali è in genere più marcata rispetto alle forme ad eziologia virale: sono presenti un'evidente epato-spleno­megalia, marcato dimagrimento, artralgie, lesioni cutanee maculo-papulose o eritematose, più frequenti al volto, dove possono assumere l'aspetto a farfalla tipi­co del LES, e febbricola; nei casi più gravi, compaiono anche versamento pleurico e/o pericardico.

 

Da un punto di vista istologico, gli spazi portali si presentano infiltrati da elementi mononucleati, tra cui prevalgono le pla­smacellule (che molti autori considerano come elemento patognomonico), che ol­trepassano la lamina limitante ed invadono il parenchima seguendo i ponti porto/portali e porto/centrali nel frattempo formatisi. Nelle fasi più avanzate, ad un tale quadro si sovrappone la rigene­razione nodulare tipica della cirrosi condamata, verso cui la malattia evolve in ge­nere abbastanza rapidamente.

La terapia dell'epatite cronica autoim­mune (di qualunque tipo) è molto efficace se instaurata precocemente, e si basa sull'impiego di corticosteroidi, alla dose ini­ziale di 20/50 mg nelle forme ad elevata attività e di 10‑20 mg di prednisone al giorno in quelle ad attività lieve o mode­rata. Dopo 2/4 settimane è spesso possi­bile ridurre progressivamente il dosaggio, impiegando dosi che siano comunque in grado di controllare la malattia e preve­nire le ricadute, in genere 5/10 mg di prednisone al giorno. L'associazione con l'azatioprina (50 mg/die) o con 6-mercaptopurina consente di ridurre il dosaggio di steroidi e l'incidenza di effetti collaterali.

In circa 9 60% dei casi, tale terapia è in grado di indurre e mantenere una remis­sione istologica, anche se per ottenere la remissione completa dei sintomi e la nor­malizzazione dei parametri ematochimici è talvolta necessario un trattamento ben più prolungato (oltre i tre anni). In una percentuale elevatissima di casi all'interru­zione della terapia si accompagna una ra­pida ripresa di malattia, mentre per i non responders ab inítio o per coloro che facil­mente presentano frequenti episodi di recrudescenza nonostante una terapia steroidea a dosaggi massimali va considerata l'opportunità di eseguire un trapianto di fegato.

 

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